Mio padre era comunista, mia madre invece
fascista. La storia inizia in questo modo, una notte del 1945,
a Roma. Io sono il risultato della loro unione, non dico perfino del loro amore.
Infatti si trattò più che altro di uno scontro fortuito. Un figlio non voluto,
ma capitato. Come tanti altri.
Da piccolo, tuttavia, il più delle volte
ero molto coccolato: ero considerato un dono del Signore, date le premesse, anche se mio padre relativizzava sempre,
non credendo molto nell’aldilà. Quando non c’era mia madre, era solito
chiamarmi Karl mentre si accarezzava
i baffi folti e lunghi. E lo stesso faceva lei, quando rimproverandomi per un non
nulla mi strillava, con il braccio teso: Benito,
attento a te!
L’equivoco di fondo, infatti, era stato
sin da subito celato dal mio nome: non riuscendosi a mettere d’accordo, fecero
un compromesso e mi chiamarono Democrazia.
Il problema è che io sono nato maschio e
il nome si riferiva ad un sostantivo femminile. Ma loro, che la scuola non la
frequentarono a lungo, non ci videro niente male a riguardo. Poco gli importava
poi dei vicini di casa, degli insegnanti, dei compagni di scuola e delle loro
famiglie. Dopotutto, erano molto orgogliosi della loro creazione e l’avrebbero
difesa anche con l’uso della forza. Si, proprio l’uso legittimo della forza
dissero un giorno.
La mia nascita è stata per loro un
momento di pace e di armonia. Prima infatti, per quanto condividessero lo
stesso tetto, si mal sopportavano. La vedevano diversamente su moltissime cose,
quasi su tutto: dalla famiglia, al lavoro, passando per la religione.
Mio padre, in nome del buon
proletariato, voleva dei figli ma solo per ricevere in cambio da loro un
salario. Mia madre, nata per prendersi cura della casa, voleva invece dei figli
da educare in un certo modo, avendo passato la maggior parte del suo tempo a
ricamare, sin dal loro matrimonio, dozzine di camicie nere.
Anche sul tema del lavoro si scontravano
spesso. Con mia madre che accusava il marito di essere poco ambizioso e mio
padre che di rimpetto faceva notare alla moglie di essere stata persuasa sin da
bambina unicamente al richiamo del manganello. Ma lui era un operaio e non un
poliziotto o un guardiano notturno, ripeteva sempre.
Insomma, non senza molte difficoltà
resistettero fino al giorno, come ho già detto, che venni al mondo io. Un
maschio nel corpo di una donna. Un diverso, un esperimento.
Ad ogni modo, fu da quel momento che le
cose andarono via via migliorando, almeno fino ad un certo punto.
Fino alla mia adolescenza, infatti, ricordo
di non aver mai avuto grossi problemi, specialmente a casa. Giusto qualche
tensione, se non proprio crisi, ma come in tutte le famiglie del resto.
Ricordo soprattutto quelle del 1977
e del 1980,
anche se ormai ero già un adulto ed avevo portato a galla tutte le mie
contraddizioni irrisolte dal 1968 in poi. Io per
primo, e loro in un secondo momento, si erano improvvisamente resi conto che
c’era qualcosa di profondamente contraddittorio ed irrisolto in me. E si erano
convinti in qualche modo che il problema fosse legato al mio nome.
Così, prima lui e dopo lei, avviando
delle consultazioni, vollero persuadermi di cambiare nome all’anagrafe. Non
capendo che purtroppo la faccenda era un po’ più complessa. Il mio non era un nome
come tutti gli altri: era stato già consegnato ai libri di storia. I loro sforzi di chiamarmi Colpo di Stato (mia madre) e Internazionale (mio padre) risultarono dunque
vani.
Tuttavia, quella fu una delle ultime
occasioni in cui mi sentii vicino a loro. Fu nel 1982,
poco dopo la vittoria della Coppa del mondo di calcio da parte della nazionale
italiana, che interrompemmo, o quasi, i nostri rapporti. I miei, anche se
ufficialmente non si erano mai separati, incontravano sempre maggiori
difficoltà nel condividere ancora lo stesso tetto ed io, abbandonata la
nostalgia degli anni felici, avevo ormai intrapreso una strada che guardava
fuori i confini domestici.
Qualche anno più tardi, agli sgoccioli
degli anni Ottanta, era il 1989, mio padre morì.
Era malato già da tempo. Mia madre, ormai avanti con l’età, non assistette
nemmeno al suo funerale ma lo vide dalla televisione. Fu un evento planetario. Mia
zia mi raccontò un giorno di averla vista versare perfino una lacrima, che
prontamente asciugò con un vecchio fazzoletto nero e liso sopra cui erano
incise le iniziali B.M.
Non fu facile per lei in effetti, perché
venne a mancare l’unico punto di riferimento della sua vita, quello attraverso
cui, in costante contrapposizione, era riuscita a farsi delle idee.
…
Gli anni a seguire furono anni di
trasformazione in cui, seppur non più giovanissimo, dovetti imparare decine di
lingue differenti convivendo con le culture più disparate: francese, tedesca,
spagnola, inglese, scandinava, greca, ungherese, polacca ecc.
Avendo vissuto da vicino l’esperienza
conflittuale della mia famiglia, mostrai segni di perplessità circa la tenuta
di questo complesso e precario sistema interculturale, ma essendo io per primo
il risultato di un esperimento, non obiettai a lungo e acconsentii alla nascita
della nuova Comunità. Era il 1993.
Due anni più tardi nacque il mio primo
figlio, frutto dell’intesa bilaterale fra me e la mia partner francese. Lo
chiamammo Erasmus, auspicando per lui
un futuro fatto di internazionalismo e cooperazione.
Quando telefonai a mia madre per darle
la notizia, chiedendole se avesse avuto piacere a conoscerlo, rispose
inizialmente di sì. Ma i suoi toni si fecero via via meno entusiasti, per non
dire freddi, quando le comunicai il nome e il colore della pelle. Erasmus
infatti era nato con la pelle nera e sebbene fosse lo stesso colore a cui era stata
affezionata sin dall’adolescenza, sua nonna non espresse più, in seguito, il
desiderio di volerlo abbracciare.
Nel 1999
nacque il mio secondo genito, frutto dell’unione che stipulai con la mia nuova
partner tedesca. Per lui scegliemmo un nome breve, Euro, anche se per metterlo al mondo ci volle parecchio tempo.
Entrambi nel pieno della nostra maturità, io e la mia compagna incontrammo
infatti non poche difficoltà per giungere alla fecondità del progetto. Ma ci
riuscimmo.
Nel frattempo i rapporti con mia madre
erano diventati praticamente inesistenti: lei non riusciva più a rintracciare
niente di familiare in me e in tutto ciò che fino a quel momento avevo
costruito, troppo moderno e progressista secondo il suo punto di vista. Lei che
ancora ricamava a mano camicie nere, nonostante l’età quasi centenaria, e usava
espressioni del tipo “se ci fosse ancora lui” e “c’è bisogno di un po’ di
pulizia e olio di ricino”.
Ma i vecchi, si sa, sono dei nostalgici
ed io non riuscivo ad avercela con lei nonostante i moltissimi episodi
spiacevoli, quasi al limite della convivenza civile, contrari alla mia natura
per certi versi incline al pacifismo. Tuttavia, era pur sempre mia madre.
Con il passare degli anni, le
discussioni e i contrasti all’interno della mia (nuova) famiglia aperta e
progressista non mancarono certamente. Il primo genito, Erasmus, andò via di
casa molto presto, ma in fondo, a parte le continue richieste di denaro che ci
faceva pervenire dalle parti più disparate del continente, non destava in noi troppe
preoccupazioni. Gli ultimi aggiornamenti ci sono giunti da Madrid, dove risultava
iscritto alla facoltà di Scienze politiche, anche se non sapevamo bene con
quali risultati. Precedentemente infatti aveva già frequentato, salvo
abbandonarle poco dopo, tre diverse facoltà.
Più problematico, sin da piccolo, fu invece
il secondo dei miei figli, Euro, cresciuto velocemente e in modo quasi
incontrollato. Particolarmente dotato in ambito scolastico, soprattutto nelle
discipline tecnico-scientifiche, aveva mostrato sin dai suoi primi anni di vita
un’insaziabile esigenza di autonomia e una riluttanza esasperata nel seguire
qualunque tipo di regola. Le sue frequentazioni giovanili poi non lo aiutarono
di certo, entrando in contatto con certi ambienti anarchico-monetari di stanza
fra Bruxelles e Francoforte.
Il nostro ultimo scontro è ruotato
attorno alla rispettive concezioni della politica, dell’economia e della
società. Come la gran parte dei giovani, anche mio figlio tendeva ad ignorare
gli insegnamenti della storia e giudicava tutto ciò che non avesse implicazioni
tecnologiche, o con uno scarso impatto in termini di business, come un qualcosa di obsoleto e anacronistico. La filosofia,
il diritto, la storia e l’arte erano, nel loro complesso, discipline inutili e
da abolire. “Il mondo, papà, non è più come te lo immagini”.
…
Mi ritornavano in mente le parole di mia
madre che scambiammo in occasione del nostro ultimo incontro: “tu sei troppo
tollerante, questo è sempre stato il tuo problema. Persino tuo padre aveva più
carattere di te”.
Pur ritenendo, alla luce dei fatti, quell’affermazione
non del tutto errata, ormai gli eventi avevano preso un loro corso, per certi
versi autonomo e inarrestabile, e consideravo abbastanza inutile interrogarsi sui
comportamenti passati e sulle eventuali responsabilità.
Tutti i miei vecchi amici e colleghi
stavano incontrando le stesse difficoltà con i loro figli, del resto, sospesi a
metà tra la consueta e innata propensione all’integrazione e la nuova e
irrefrenabile ondata di intolleranza repressiva. Sembrava di essere tornati ai
tempi dell’instabilità che precedette lo scoppio delle due guerre mondiali,
anche se all’epoca io e la mia combriccola ancora non eravamo nati.
Forse per questo motivo non riuscivamo
più a dare, da qualche tempo, un’interpretazione agli eventi. Non sapendo che
pesci pigliare, brancolavamo nel buio.
Ormai le nostre riunioni somigliavano
sempre più a quegli incontri piuttosto patetici fra reduci e veterani della
guerra. Solo che noi la guerra non l’avevamo mai combattuta e nemmeno vista da
vicino. Il mondo era davvero cambiato e le nostre teorie e ricette non erano
più efficaci per cercare di dargli una sistemata. Eravamo dei malati sul viale
del tramonto: cercavamo a tutti i costi una cura ma non stringevamo tra le mani
nemmeno una diagnosi precisa. Nessun medico e nessuna medicina facevano al caso
nostro.
Qualcuno di noi, sopraffatto dagli
eventi che la Storia in modo ciclico scaglia sulla Terra e sulle vicende umane,
aveva finito per cedere alla liturgia del Terrore, quella incredibile messa in
scena di barbarie e populismo che spinge le persone, specialmente i più poveri
e disagiati, a farsi la guerra tra loro. Quelle stesse persone che ora ci
minacciavano, a me e ai miei anziani compagni, avendo decretato anzitempo la
fine della nostra gloriosa epoca.
Una guerra civile, scandita da parole
come “razza” e “supremazia”, stava conducendo il mondo sull’orlo dell’oblio. Ed
io, purtroppo, non ero attrezzato per questo genere di situazione.
Con i miei figli lontani, fisicamente o
mentalmente, e mia moglie alle prese con una crisi di nervi, non mi restava che
riallacciare un qualche rapporto con la persona che mi aveva creato, la sola
che era rimasta in vita, nonostante i suoi cento anni passati. In fin dei
conti, sembrava più attrezzata di me nell’affrontare scenari tanto violenti e
irrazionali.
La sua longevità, unita alla forza di
cui ancora disponeva, rappresentavano un fatto eccezionale. Io, più giovane di
lei di trent’anni, ero messo molto peggio, malconcio e malandato come un
pensionato scolpito in una poltrona reclinabile.
A ben vedere, anche se contrario ai
principi della natura, era molto più probabile che fosse stata lei a
seppellirmi. E non viceversa.
Mio padre era comunista, mia madre
invece fascista. Mentre lui non poteva più essere niente, se non polvere, mia
madre avrebbe continuato ad esserlo. E chissà per quanto tempo ancora.
Lorenzo Fois