martedì 7 giugno 2016

Democrazia a cinque stelle: c’era una volta la sinistra

E ora, signori, il ballottaggio. Molti elettori dovranno rifarsi le sopracciglia, altri gli sciacqui col collutorio. Anche se i più numerosi restano quelli che dovranno bendarsi nuovamente gli occhi, tapparsi il naso e respirare col culo.
M5S vs PD, roba che neanche Alì contro Foreman, tanto per restare sul pezzo. Virginia Raggi che sfida Bob Giachetti a suon di “cambiamo tutto”, l’altro che risponde colpo su colpo “non cambierete niente”. Perché è cosa nota, se Roma è la città eterna un motivo ci sarà. Non se move ‘na foglia che il Papa non voglia, cantava Andreotti al festival di Sanremo mezzo secolo fa.
Certo, il Pd ha mostrato un certo coraggio nel presentarsi davanti ai suoi elettori dopo il “caso Marino”, i quali se l’hanno ripagato parzialmente è stato solamente per non vedere (ancora per poco) il M5S prendersi Roma. Anche se al Campidoglio più che altro il movimento rischia di perdersi, perché se è vero che tutte le strade portano lì (ai voglia a dire ancora, nel 2016, che certe cose si fanno per passione), per sopravvivere nella giungla capitolina ci vuole quel quid, che non è il culo, che la candidata pentastellata sembra non possedere.
L’esito ad oggi appare scontato. Il Pd dovrebbe ripetere l’impresa appena compiuta dal Leicester di Ranieri in Premier League, solo che al posto di Vardy e Mahrez il partito di Matteo Renzi affida le sue sorti a politici del calibro di Orfini e Serracchiani.
Dal primo turno ne è uscita bene la Meloni, la quale ha mostrato a Marchini che per prendere voti a destra ci vuole sempre una certa dose di populismo. Un centro-destra che, unito, avrebbe comunque superato il Partito democratico e si sarebbe presentato al secondo turno con maggiori possibilità di vittoria rispetto all'agognante ex partito di sinistra, dei lavoratori, del ceto medio ecc.
Ma è su questo punto che vale la pena fare una riflessione. Roma non è più né mai lo sarà una città di sinistra (centro-sinistra). Se consideriamo tutto lo scacchiere politico, il centro-sinistra ha raccolto poco meno del 30%, sommando però i voti di Fassina, il Berlinguer de’noantri. Di questo terzo scarso della popolazione, una buona parte, non proviene da elettori tradizionalmente fedeli alla bandiera rossa ma da reduci e nostalgici democristiani. Se consideriamo M5S, la destra di Meloni e Salvini come partiti caratterizzati da populismo e scarsa diplomazia, il partito di Marchini come l’espressione della destra per così dire liberal, parola di cui va peraltro molto fiero il presidente del consiglio, ci rendiamo conto che, ad eccezione di un’esigua minoranza facente parte di quel 30% (non vengono considerati gli astenuti, i quali forse non credono più nella democrazia rappresentativa), otto cittadini su dieci non abbracciano più le istanze tanto care alla sinistra italiana.
Quale sinistra, verrebbe da domandarsi?
Perché se una colpa c’è, questa andrebbe suddivisa in tante e diverse componenti: la classe dirigente in primis; i fattori esogeni che hanno modificato di parecchio il contesto entro cui la sinistra si trovava ad operare (la classe operaia); l’avvento delle nuove tecnologie che ha accompagnato il disinteresse delle nuove generazioni alla politica e alle sue tradizionali forme di partecipazione (gli scioperi, le manifestazioni, i cortei e perfino gli scontri con la polizia).
La sinistra in Italia è morta, di certo non da ieri. Con buona pace dei suoi aguzzini, dei suoi martiri e dei suoi rivali. Ha trionfato il populismo, patologia intrinseca alla democrazia. Ha trionfato il parassitismo di stato e la passività dei suoi cittadini, sedotti dalla tecno-democrazia, rivoluzionari della tastiera. Hanno trionfato i padroni e i loro mezzi di produzione, sempre più eterei, come “un dio senza fiato” a cui non bisognerebbe mai credere.
In fondo, è sempre colpa del denaro o di chi ne fa le veci.


Lorenzo Fois