Mentre
la polizia belga, francese, italiana, tedesca (a proposito: ma una polizia
europea quando esisterà?), è sulle tracce di Salah il fuggitivo, l’uomo più veloce del
mondo, l’imprendibile – quasi come l’omonimo egiziano che si
aggira sulla fascia destra dell’Olimpico quando gioca la sponda di Roma
giallorossa – i potenti intanto si riuniscono per una nuova partita a Risiko
senza avere ancora terminato quella precedente, politici e demagoghi cavalcano
l’onda spargendo sale sulle ferite e noi comuni mortali, immortali e immorali
ci poniamo infine tutti la stessa domanda: ma stiamo in guerra si o no? E se si, qual è il nemico, quali gli alleati?
No
perché la guerra è una cosa seria, è una di quelle cose per cui la maggior
parte delle persone la smetterebbe anche di stare ore davanti allo specchio a
nutrire il proprio ego di fronzoli insignificanti e leggendarie menzogne. Per
cui molti, forse, rivedrebbero il senso della loro vita appagata da decenni di
benessere e ignavia.
Per
fare una guerra bastano pochi ingredienti, in fondo: ideologia fondata
sull’individuazione di un nemico (e ci siamo), conversione della propria
economia in economia di guerra, un esercito ben strutturato (e qui siamo messi
maluccio, anche perché la leva non è più obbligatoria), un fronte da cui
iniziare le operazioni belliche.
Ma
le guerre, come tutti sanno, oggi non si combattono sul campo (gli attentati
mostrano chiaramente l’essenza regionalistica e delocalizzata dei conflitti), come
si faceva un tempo, quando giovani e meno giovani venivano chiamati alle armi
per volontà del proprio paese. Non certo la loro.
Oggi
sarebbe tutto diverso, certamente. Gli Stati nazione, le corone, i tricolori hanno
un peso e un ruolo diverso nello scacchiere geopolitico contemporaneo. Armi
chimiche (esisteranno davvero o rappresentano nell’immaginario la versione meno
intrigante delle scie chimiche?), batteriologiche, bomba atomica, petrolio,
azioni, fondi d’investimento, tassi di cambio: gli strumenti che dispensano e
propagano vittime e diseguaglianze sono innumerevoli e nelle mani di realtà
molto più complesse e oscure di quelli che un tempo erano i protagonisti delle
battaglie e delle guerre. I confini, del resto, non esistono più da tempo. E
non solo a livello geopolitico.
Basti
pensare ai nostri nemici, ai cattivi: i jihadisti, ma soprattutto ai loro
affiliati, i foreign fighters, tutti quelli che hanno trovato nel terrorismo di
matrice islamica (anche se la religione non è il pilastro di questa
contrapposizione) una sorgente di “rappresentanza” ben più luminosa di quella
che il panorama politico offre oggigiorno. Almeno quelle forme lì che noi
occidentali eravamo abituati a conoscere (partiti, sindacati, organizzazioni,
movimenti, associazioni ecc.). Chi non è inserito nel sistema, chi non lavora
ad esempio, chi non può permettersi un mutuo, una macchina, un’assistenza
sanitaria: insomma, chi è rimasto “fregato” dalla democrazia liberale
occidentale e dalle sue istituzioni può lasciarsi affascinare da questo modello
“alternativo” e radicale. Che poi tanto alternativo non è. Il pacifismo è
alternativo, il terrorismo no.
Il
terrorismo rintraccia infatti la sua etimologia all’interno della Rivoluzione francese,
nel periodo termidoriano di Robespierre, e non mancano successivi esempi in
seno allo stesso mondo occidentale di movimenti atti ad alimentare un clima di
Terrore: in Italia abbiamo conosciuto le Brigate Rosse, su tutti. Come cantava
un noto e lungimirante autore del Novecento: “qui chi non terrorizza, si ammala di terrore”. Ed è il controllo di
questo Terrore che alimenta il Potere e che a sua volta viene alimentato dal
Potere.
Oggi più che mai, con i potenti mezzi di comunicazione di cui
disponiamo, questo è sotto gli occhi di tutti. L’Isis, come nuovo attore
geopolitico nato dal modello di sviluppo occidentale: petrolio, armi e tecnologie
digitali. Partendo da questo dato, qualcuno arriva perfino a sostenere che l’Isis
sarebbe una creazione yankee.
Nel
corso del Novecento, fino alla caduta del Muro e prima della disgregazione
dell’Urss, la contrapposizione al capitalismo era rappresentata, in larga parte
ma non solo, dal comunismo. Caduto questo, si è parlato di “fine della Storia”:
il pensiero unico era pronto ad abbattersi, sotto il manto delle libertà, delle
opportunità e della meritocrazia, su un mondo che si è scoperto improvvisamente
uguale in ogni angolo del globo, anche laddove a malapena i palazzi erano stati
costruiti e i campi coltivati. Culture, lingue, costumi, tradizioni sono state
cancellate e abbattute (come fanno i terroristi islamici con i siti
archeologici e i musei) in nome della Libertà a stelle e strisce.
La
globalizzazione bambina. Quella che ti ha cambiato, decostruito e rimontato a
suo piacimento. I giovani di oggi sono l’esempio lampante di questo disorientamento
antropologico e culturale dell’essere umano. O almeno delle generazioni 2.0,
che si trovano invischiate in un mondo (quasi) completamente digitale, espressione
dell’individualismo borghese più becero, che di fatto consegna l’essere umano
ad una condizione (inumana) di solitudine e mistificazione in una realtà solo
apparentemente colma di diversità e opportunità.
L’Occidente
e l’Isis sono le due facce della stessa medaglia, attori internazionali che si
pongono “in conflitto” per mantenere un equilibrio strategico, laddove
ciclicamente si vengono a creare dei vuoti di Potere (vedi l’Urss). Non ha
senso tifare per nessuno, semplicemente perché non esistono i buoni e i
cattivi. Esistono solo milioni di vite in serio pericolo, specialmente in quei
territori che non destano in noi occidentali lo stesso effetto di ipocrita
indignazione per una strage avvenuta a Parigi, o su una metropolitana
londinese, o di un attentato durante il Giubileo. Ma questo, ovviamente, è
l’effetto della nostra cultura borghese individualista e perbenista che fa dell’ideologia bellica il suo cavallo di
battaglia, da sempre.
Il
pacifismo, del resto, è un sogno che
per essere tale deve essere immaginato da tutte le persone che abitano questo
pianeta, potenti e comuni mortali. Ma io so benissimo, purtroppo, che questa è soltanto
l’ennesima utopia in una società accecata dal denaro che non conosce altra
meta se non quella della sua estinzione compiuta con la complicità del proprio iphone.
Amen
Lorenzo Fois