mercoledì 25 novembre 2015

Il Terrore dell'Occidente

Mentre la polizia belga, francese, italiana, tedesca (a proposito: ma una polizia europea quando esisterà?), è sulle tracce di Salah il fuggitivo, l’uomo più veloce del mondo, l’imprendibile – quasi come l’omonimo egiziano che si aggira sulla fascia destra dell’Olimpico quando gioca la sponda di Roma giallorossa – i potenti intanto si riuniscono per una nuova partita a Risiko senza avere ancora terminato quella precedente, politici e demagoghi cavalcano l’onda spargendo sale sulle ferite e noi comuni mortali, immortali e immorali ci poniamo infine tutti la stessa domanda: ma stiamo in guerra si o no? E se si, qual è il nemico, quali gli alleati?
No perché la guerra è una cosa seria, è una di quelle cose per cui la maggior parte delle persone la smetterebbe anche di stare ore davanti allo specchio a nutrire il proprio ego di fronzoli insignificanti e leggendarie menzogne. Per cui molti, forse, rivedrebbero il senso della loro vita appagata da decenni di benessere e ignavia.
Per fare una guerra bastano pochi ingredienti, in fondo: ideologia fondata sull’individuazione di un nemico (e ci siamo), conversione della propria economia in economia di guerra, un esercito ben strutturato (e qui siamo messi maluccio, anche perché la leva non è più obbligatoria), un fronte da cui iniziare le operazioni belliche.
Ma le guerre, come tutti sanno, oggi non si combattono sul campo (gli attentati mostrano chiaramente l’essenza regionalistica e delocalizzata dei conflitti), come si faceva un tempo, quando giovani e meno giovani venivano chiamati alle armi per volontà del proprio paese. Non certo la loro.
Oggi sarebbe tutto diverso, certamente. Gli Stati nazione, le corone, i tricolori hanno un peso e un ruolo diverso nello scacchiere geopolitico contemporaneo. Armi chimiche (esisteranno davvero o rappresentano nell’immaginario la versione meno intrigante delle scie chimiche?), batteriologiche, bomba atomica, petrolio, azioni, fondi d’investimento, tassi di cambio: gli strumenti che dispensano e propagano vittime e diseguaglianze sono innumerevoli e nelle mani di realtà molto più complesse e oscure di quelli che un tempo erano i protagonisti delle battaglie e delle guerre. I confini, del resto, non esistono più da tempo. E non solo a livello geopolitico.
Basti pensare ai nostri nemici, ai cattivi: i jihadisti, ma soprattutto ai loro affiliati, i foreign fighters, tutti quelli che hanno trovato nel terrorismo di matrice islamica (anche se la religione non è il pilastro di questa contrapposizione) una sorgente di “rappresentanza” ben più luminosa di quella che il panorama politico offre oggigiorno. Almeno quelle forme lì che noi occidentali eravamo abituati a conoscere (partiti, sindacati, organizzazioni, movimenti, associazioni ecc.). Chi non è inserito nel sistema, chi non lavora ad esempio, chi non può permettersi un mutuo, una macchina, un’assistenza sanitaria: insomma, chi è rimasto “fregato” dalla democrazia liberale occidentale e dalle sue istituzioni può lasciarsi affascinare da questo modello “alternativo” e radicale. Che poi tanto alternativo non è. Il pacifismo è alternativo, il terrorismo no.
Il terrorismo rintraccia infatti la sua etimologia all’interno della Rivoluzione francese, nel periodo termidoriano di Robespierre, e non mancano successivi esempi in seno allo stesso mondo occidentale di movimenti atti ad alimentare un clima di Terrore: in Italia abbiamo conosciuto le Brigate Rosse, su tutti. Come cantava un noto e lungimirante autore del Novecento: “qui chi non terrorizza, si ammala di terrore”. Ed è il controllo di questo Terrore che alimenta il Potere e che a sua volta viene alimentato dal Potere. 
Oggi più che mai, con i potenti mezzi di comunicazione di cui disponiamo, questo è sotto gli occhi di tutti. L’Isis, come nuovo attore geopolitico nato dal modello di sviluppo occidentale: petrolio, armi e tecnologie digitali. Partendo da questo dato, qualcuno arriva perfino a sostenere che l’Isis sarebbe una creazione yankee.

Nel corso del Novecento, fino alla caduta del Muro e prima della disgregazione dell’Urss, la contrapposizione al capitalismo era rappresentata, in larga parte ma non solo, dal comunismo. Caduto questo, si è parlato di “fine della Storia”: il pensiero unico era pronto ad abbattersi, sotto il manto delle libertà, delle opportunità e della meritocrazia, su un mondo che si è scoperto improvvisamente uguale in ogni angolo del globo, anche laddove a malapena i palazzi erano stati costruiti e i campi coltivati. Culture, lingue, costumi, tradizioni sono state cancellate e abbattute (come fanno i terroristi islamici con i siti archeologici e i musei) in nome della Libertà a stelle e strisce.
La globalizzazione bambina. Quella che ti ha cambiato, decostruito e rimontato a suo piacimento. I giovani di oggi sono l’esempio lampante di questo disorientamento antropologico e culturale dell’essere umano. O almeno delle generazioni 2.0, che si trovano invischiate in un mondo (quasi) completamente digitale, espressione dell’individualismo borghese più becero, che di fatto consegna l’essere umano ad una condizione (inumana) di solitudine e mistificazione in una realtà solo apparentemente colma di diversità e opportunità.
L’Occidente e l’Isis sono le due facce della stessa medaglia, attori internazionali che si pongono “in conflitto” per mantenere un equilibrio strategico, laddove ciclicamente si vengono a creare dei vuoti di Potere (vedi l’Urss). Non ha senso tifare per nessuno, semplicemente perché non esistono i buoni e i cattivi. Esistono solo milioni di vite in serio pericolo, specialmente in quei territori che non destano in noi occidentali lo stesso effetto di ipocrita indignazione per una strage avvenuta a Parigi, o su una metropolitana londinese, o di un attentato durante il Giubileo. Ma questo, ovviamente, è l’effetto della nostra cultura borghese individualista e perbenista che fa dell’ideologia bellica il suo cavallo di battaglia, da sempre.
Il pacifismo, del resto, è un sogno che per essere tale deve essere immaginato da tutte le persone che abitano questo pianeta, potenti e comuni mortali. Ma io so benissimo, purtroppo, che questa è soltanto l’ennesima utopia in una società accecata dal denaro che non conosce altra meta se non quella della sua estinzione compiuta con la complicità del proprio iphone.

Amen


Lorenzo Fois 

sabato 14 novembre 2015

Vitello tonnato


Ve lo dico, ma solo perché non interessa a nessuno.
Ve lo racconto, che tanto nessuno crede più alle favole.
C’era una volta, o forse era una cupola, se non addirittura la cappella Sistina. Questione di circonferenze.
Correva l’anno, ma passeggiavano i mesi, per non parlare dei giorni, esausti e sfiniti, si trascinavano inermi di stazione in stazione, ora dopo ora, fino all’ultimo centesimo della notte.
La storia aveva un finale indigesto, dopo un lungo viaggio si trasformò in geografia. Cosi le persone, che diventarono improvvisamente dei selfi, e i film, che sbrodolarono in interminabili serie tv. Come se non bastasse, artisti e poeti lasciarono il posto ad hypster e dj che avevano il compito di allestire mostre fotografiche allo zenzero imbottiti di anelli parlanti e barbe fotovoltaiche. Perfino gli scienziati pazzi divennero dei modestissimi impiegati statali e i visionari si concentrarono soprattutto sulle scommesse sportive.
Facebook divenne il regno dei cieli, si parlava bene o male del bene e del male, degli hasthag di davide contro quelli di golia, di angeli che incontrano demoni su Tinder. Ognuno era facile profeta nella propria patria. Poi tornò James Bond dal favoloso mondo di Amelie, e da quel momento le cose cambiarono. Nessuno ebbe più il coraggio di ordinare una comunissima Peroni al bancone.
Cadde il Muro di Dublino, mentre in Normandia sbarcarono per la prima volta gli Alleati dei vegetariani, un plotone invincibile di soldati fatti di soia. Gli Stati Uniti avevano invaso frattanto il pianeta delle Scimmie, guidati da Luke Skywalker e dal padre del bambino col pigiama a righe. Contrastati fino allo strenuo dalle truppe imperiali di Bart Simpson, un soldato Jedi convertito all’islam, miravano infine alla conquista di Ponte Milvio e Corso Francia. Ma non sarebbe stato facile vedersela con tutti quei Suv parcheggiati in doppia fila.
Mentre i più grandi filosofi discutevano dentro alle loro tombe, da secoli, i terroristi intanto si allearono con le più potenti banche e fondi d’investimento globali. I jihadisti reclutarono nuove leve tra Oxford e la Magliana, organizzando colloqui sulla loro nuova piattaforma social. L’app del Terrore divenne in breve tempo la più scaricata tra i giovani. Le posizioni professionali più ambite furono quelle di: Robespierre, er Libanese e Ken Shiro. Diverse centinaia di attentati sconvolsero la popolazione mondiale. Qualcuno disse che in realtà dietro a questi disordini si celasse la mano invisibile della C.I.A, qualche altro che era il disegno di un complotto massonico, altri infine pensavano agli alieni. Era già partita la caccia alle streghe, ma i soldati a cavallo si ruppero la clavicola e si spararono sui piedi.
In mezzo a tutta questa confusione, rimaneva una sola certezza: il vitello tonnato.
Correva l’anno, ma passeggiavano i mesi, per non parlare dei giorni, esausti e sfiniti, si trascinavano inermi di stazione in stazione, ora dopo ora, fino all’ultimo centesimo della notte.

Lorenzo  Fois

mercoledì 21 ottobre 2015

Poesia der saluto


Vorei esse ‘n omo de poche parole, pe’ nun sprecanne 
troppe ar vento,
che quello poi se ‘ncazza e te sputa forte ‘n faccia 
il suo scontento.
Vorei esse ‘n tipo più prudente, de quelli che ce vanno 
co li piedi de piombo,
che se’nnamoreno delle barbie e che se ‘mpegnano a fonno.
Vorei esse spreggiudicato, arrogante, 
colla faccia da vincente,
vorei quello che  me manca, solo ché n’valeva gniente.
Vorei esse ‘n po’ più avvelenato, Cinico e Freddo,
cor coltello fra i denti.
Anzi, si ce penso bene, vorei esse anche 
er Libanese e il Dendi.
Vorei esse ‘n pezzo grosso, ‘na specie de marchese
Pe’ pote’ dì: “io so’ io e voi chi cazzo sete!”.
Vorei morì il giorno che lo dico io,
all’alba o al tramonto, n’è ‘mportante,
vorei un bel funerale de gente ancora agognante.
Vorei, vorei, vorei, vorei e vorei …
Mi nonno me diceva sempre: 
“su sta Tera piate pe’ quello che sei.
Che ‘na legge e una sola è valida a sto mondo:
chi nasce quadrato nun po’ morì tondo”.
E allora me dispiace pe’ quelli come te,
pe’ l’egoisti, i buciardi, i vigliacchi e i lacché.
Ma nun ne famo ‘n dramma, c’è tutta n’antra vita:
se piagne solo pe’ li morti e mai pe’ la fica.


Lorenzo Fois

domenica 11 ottobre 2015

Popolo-giudice


È stata la sua settimana, senza dubbio, c’era da aspettarselo. Era nell’aria. Il sindaco s’è fatto fregà da una delle tante ottobrate romane. Caduto Marino, è però iniziata a cadere anche la pioggia, come se pure lei non stesse aspettando altro. Strano vizio, va detto, quello di fare cadere i governi in Italia (anche se nello specifico si è trattato di dimissioni). Una pratica sempre diffusa, che accompagna e forse porta a coronamento quell’altra grande usanza popolare: il tifo.
Una democrazia che ricorda sempre più uno stadio. Solo che qui non si racchiude tutto in una partita, di novanta minuti, giocata la domenica. I mezzi di distrazione di massa hanno dato una bella mano ai detrattori del sindaco. #Marino vattene, #Roma fa schifo, #Welcome to favelas sono state le insegne luminescenti che hanno preparato il terreno per la sua marcia funebre. E poi le (finte) inchieste mediatiche sui rom, sui loro crimini, quelle (purtroppo vere) sulle strade sporche e disastrate. Le polemiche sui suoi viaggi, sulle sue spese, sugli inviti, sulle bici. In sostanza, la partita si è giocata su un altro campo, quello molto più promiscuo e incontrollabile della comunicazione politica duepuntozero. La comunicazione fai da te, quella senza filtri, quella che ognuno po’ dì la sua, dove un like, essenzialmente, conta più di un voto.
Dopotutto, non è certo il sottoscritto a dire (o ad avvertire secondo i punti di vista) per primo che uno dei più grandi pericoli per la democrazia è la democrazia stessa. È nel suo seno che si annidano i germi della sua auto-distruzione. Il popolo, ahimè, non contribuisce certo al corretto funzionamento di questo sistema, semmai esaspera le sue criticità. E quello del popolo-giudice, immagine di cui si servono numerosi filosofi e politologi, è senza dubbio l’aspetto su cui più vale la pena porsi interrogativi. Se per trovare una soluzione al problema della scarsa partecipazione e mobilitazione politica che c’è oggi in Italia, e non solo, si pensa che basta sostituire al mondo (per quanto poco edificante) della realtà fisica quello della realtà virtuale, beh, si rischia di fare danni ancora peggiori.
La politica ha i suoi tempi e per “giudicare” l’operato di un amministratore pubblico ci vuole del tempo. Specie se questa persona opera in una città come Roma (insomma, non proprio Casal Busterlengo). Capacità di riflessione e di critica, in linea di massima, male si coniugano con strumenti come Twitter, Facebook ecc. Per costruire un palazzo, bisogna partire dalle fondamenta e non dalle finestre.
Marino è stato fatto fuori, come in una faida tra clan rivali, da tutti quei poteri che già si spartivano Roma e che sempre se la spartiranno, con la complicità anche di tutti coloro che hanno “giudicato” Marino sin dal primo giorno per via di quella sua faccia un po’ così, come si dice carinamente in questi casi. E questo forse è l’aspetto più inquietante della vicenda: su quali parametri ormai si fondano i “giudizi” delle persone?
E ora? Tutti quei romani che speravano che Marino sparisse definitivamente dalla loro vista, come si rapporteranno col nuovo sindaco? Faranno il tifo o lo ostacoleranno? Quando si accorgeranno che le buche sono un problema endemico e che gli zingari continueranno a condurre la loro vita come sempre hanno fatto nel corso della storia, a chi daranno la colpa?
La faccenda insomma non finisce qui…
#RomaRiacchiappate#Accannatecostisocial#smetteteladedicazzate

Lorenzo Fois

giovedì 1 ottobre 2015

Mozzarelle di bufala e lasagne verdi

Totti che compie 39 anni, infortunandosi in campo ma festeggiando la notizia della futura nascita del suo terzo erede (speriamo anche sul prato verde, se fosse un maschio). Berlusconi, quattro decadi più vecchio, che spegne 79 candeline, grazie soprattutto all’ossigeno della sua giovane compagna, a cui ha appena regalato una lussuosa villa lontana dal casino che da sempre alberga ad Arcore. Una femme fatale, si sarebbe detto un tempo. In realtà, una procace Miss mozzarella di bufala con il fiuto per i tartufi bianchi. E vi prego, non indignatevi ancora per la differenza di età: il compito della badante è pur sempre ingrato. Uno schiaffo a chi continua a ripetere che “gli italiani non vogliono più fare certi lavori”.
E poi le polemiche, da quelle che coinvolgono ormai settimanalmente il sindaco Marino, impegnato nei suoi lunghi viaggi d’affari oltreoceano (Roma in effetti è un business che nel corso degli anni è diventato patrimonio della peggiore feccia locale), a quelle legate alla gaffe di Miss Italia che ha risposto (male) ad una domanda ancora più cretina.
E se è vero che ad un’azione corrisponde sempre una reazione, che dire delle migliaia di invettive inutili sui social network? Quanta indignazione di fronte al nulla cosmico e quanta indifferenza verso i problemi del genere umano!
Ma lo sapevate che, ad esempio, secondo le previsioni degli esperti, nel 2025 Facebook dichiarerà guerra alla Siria? E che, sempre nello stesso anno, il veganesimo diventerà il movimento terroristico più pericoloso del pianeta al grido di “mi ricordo lasagne verdi”? E ancora, lo sapevate che il pelo nell’uovo diventerà tossico, che il congiuntivo verrà sostituito dall’indicativo ibrido e che, dulcis in fundo, Barba d’Urso vincerà finalmente, dopo lunghi anni di battaglie legali, il premio Oscar per la lacrima più finta mai esistita sullo schermo?
Insomma, se le previsioni si avverassero ci sarebbe di che preoccuparsi.
Ma in fondo si sa, le previsioni non ci azzeccano quasi mai. Quella degli algoritmi è una moda, come quella degli hashtag, dei tatuaggi e delle birre artigianali. Per adesso, godiamoci ancora per poco gli assist del capitano e la tintura per capelli del cavaliere, ultimo rifugio dei nostalgici del Winner Taco, dei dieci sacchi e di Roberto Carlino, l’uomo che “non vendeva sogni, ma solide realtà”!


Lorenzo Fois



mercoledì 9 settembre 2015

La strana faccenda della morale


Si è letto molto, scritto tanto, condiviso un mucchio, commentato parecchio. A dire il vero, ogni volta che l’uomo avverte il bisogno di ipocrisia riesce a dare il meglio di sé, aiutato quel tanto che basta dai potenti mezzi di comunicazione a sua disposizione: sociali dell’anti-socialità.
È capitato con Charlie, adesso è il turno di Aylan, il bambino siriano riverso con la faccia in terra su una spiaggia di Bodrum. Tutti nomi stranieri, chissà, forse il prossimo episodio su cui la morale batterà la sua lunga lingua affilata avrà il nome di Pasquale, Antonio, Fabrizio. Magari dopo che l’Isis avrà bombardato San Pietro o sarà riuscito nell’intento di avvelenare tutto il cibo contenuto nell’Expo o, più probabilmente, il giorno in cui tutti i bambini padani andranno a scuola col Corano sotto al braccio e l’astuccio di Maometto. Forse nel frattempo ci saranno state le tanto reclamate elezioni, il Senato sarà diventato il dopo-lavoro degli onorevoli e la Cina avrà trasformato il mondo in un grosso ventilatore senza pale.
Intanto l’estate è finita, l’abbronzatura cede il passo ai primi mal di gola, è ricominciato fortunatamente il campionato di serie A e anche il sindaco Marino pare si sia rifatto vivo dalle parti del Campidoglio. Chissà se avrà terminato la stesura del suo romanzo! Qualcuno racconta che appena ha rimesso piede a Roma è inciampato in una buca sul marciapiede sotto casa, terminando la sua caduta su di un grosso escremento ormai duro come il cemento. Il trauma cranico, tuttavia, pare lo abbia rinsavito. È da qualche giorno, infatti, che ripete di essere Francis Scott Fitzgerald e non il sindaco della capitale.
Nel frattempo il calderone suscitato dal funerale di un boss dei Casamonica è approdato al tavolo della Santa Inquisizione: presiede il giudice Bruno Vespa. Mamma Rai è ben contenta di farcire i suoi panini con merda a basso costo. Dalle parti di Viale Mazzini degli ubriaconi stanno già pensando ad un nuovo talent show incentrato sulla capacità degli italiani a delinquere e, dall’altra parte, sul loro spiccato senso dell’etica e della morale. Dice l’Istat, infatti, che per ogni italiano che delinque ce ne sono almeno due pronti a fare la morale. Ciò significa che il numero dei moralisti è il doppio di quello dei furfanti, furbetti di quartiere e ladri di professione. In alcuni casi può capitare anche che ladro e moralista convergano nella stessa persona. Forse questo è l’esempio più lampante di bipolarismo. L’unico vero bipolarismo che può esistere al momento.


Lorenzo Fois



sabato 25 luglio 2015

Farewell


Eravamo arrivati all’altro capo del mondo dentro la nostra Chevrolet scaduta, dopo aver attraversato il deserto artico e le montagne dalle vette liquefatte. Era un bel giorno di primavera, sarà stata la fine di Novembre o l’inizio di Aprile, non ricordo di preciso. Prendevamo tutti e due gli schiaffi dolci del vento sulla faccia e un sole abbastanza timido tramontava sulle lenti dei tuoi occhiali da sole. I miei, ti ricordi, li avevo scambiati un giorno con una chitarra senza corde. Il suo suono non ti era mai piaciuto, del resto, cosi come le parole che affollavano le pagine dei miei racconti. Troppo tristi e astratti, dicevi.
La radio trasmetteva una vecchia canzone che conoscevamo entrambi, tu meglio di me, visto che da qualche tempo non riuscivi più a fare a meno della voce di quel poeta della Pavana. Tuo padre aveva un suo disco che custodiva gelosamente nel soggiorno, a cui per tanti anni non hai osato avvicinarti, forse per paura.
Ogni suo verso era un’immagine riflessa allo specchio. Ogni sua nota era destinata a durare oltre il nostro viaggio. Non lo sapevi ancora, ma era arrivato il momento di tirare il grilletto.
Senza darlo a vedere i miei occhi guardarono di sfuggita un cartello con su scritto “fine della corsa”, mentre te afferravi di nascosto la tua pistola carica: un iphone era quanto di più pericoloso possedevi all’epoca.
È da quel preciso punto che abbiamo cominciato a scorgere le voragini aperte dal terremoto, lungo la strada deserta e scoscesa. Dove si interrompeva la strada iniziava la fine del mondo. O forse, più semplicemente, la fine della nostra avventura in macchina.

La crisi devastava il pianeta da sinistra a destra, sospinta dai tumulti provocati dalle bolle finanziarie, dalle petro-monarchie e dalle compagnie delle sbronze astemie. Quando tutto era iniziato, baby, io e te ci eravamo detti che non ci saremmo mai lasciati, che avremmo fermato il tempo e qualche altra bugia dell’amore.
Trovammo un motel, prendendo la strada che portava a nord, in direzione di Berlino, passando per la Garbatella, Bologna e Mulhollande drive. Ci lasciammo la crisi, l’Isis e il concerto di Sixto Rodriguez alle spalle, o almeno così credemmo. Prima di dormire fumai nervosamente un paio di sigarette, mentre te facevi finta di sognare e intanto pregustavi in penombra l’odore rapace e sfuggente della libertà.
La mattina, quando ci svegliammo, ricordo bene quell’espressione impressa sul tuo volto. Sembravi un’equilibrista zoppo sopra un filo interdentale. Non ti dissi niente e ordinai due caffè, entrambi per me. La colazione era come vomito sopra un muffin con le gocce di cioccolato.
Ripartimmo che il sole ancora sbadigliava, sopra il viso assopito di quel cielo pieno di lacrime e ripensamenti. Era un giorno come un altro, un viso come ce ne sono tanti.
Era passato parecchio tempo dal giorno in cui partimmo assieme, fuggendo da quella assurda guerra fra uomini e donne. Scappavamo soprattutto per cercare quell’isola che credevamo nessuno avesse mai visto prima. Un’isola solo per noi. Eri così giovane e ingenua ed io così ingenuo e vecchio.

All’improvviso i tuoi occhi mi apparvero velatamente infelici: finalmente ti eri levata quella maschera di dosso. O forse, più semplicemente, ci eravamo resi conto dopo tanto vagare  che quell’isola non esisteva e che nessuno l’avrebbe mai trovata. Ancora.
Nemmeno noi.
Domandarsi il perché non sarebbe servito a niente, baby, dare un’occhiata a Google maps non avrebbe reso più dolce la triste scoperta. I ricordi, giunto alla mia età, cominciavano ad affollarsi nella testa ed io ero stanco di sopportare il peso della guida, tu probabilmente quello di starmi accanto. In un attimo, dimenticasti le palme, il mare, la sabbia, quell’isola.
Prima dell’ultima sosta, vedemmo soltanto degli strani tipi con dei baffi tatuati fotografare il niente attraverso un barattolo di pomodori. E anche un ristorante completamente vuoto da cui proveniva una musica techno-gitana da cui emergeva distintamente il suono di una cornamusa della Cornovaglia meridionale e di un trapano riprodotto a mano da un cabarettista cinese.
Probabilmente i segni della guerra civile che aveva lasciato tracce indelebili sul nostro futuro: mai come in quel momento avevo sentito la desolazione del mondo e rimpianto il passato.

Era qualche minuto che il tuo telefono aveva smesso di funzionare ed io avevo finito l’ultima stecca di sigarette. Non c’erano bar aperti e nessuna speranza per il mio fumo e le tue ricariche telefoniche. L’attesa dell’ultima fermata diventava sempre più straziante, in preda del tuo silenzioso panico. Ormai avevi deciso però, la guerra valeva la pena.
Mi fermai esausto all’inizio di una grande strada di cemento rialzato, recintata da pali elettrici e filo spinato. Doveva essere stata la pista di atterraggio di un aeroporto, prima della guerra.
Non fu facile guardarsi negli occhi per l’ultima volta, senza il sapore di un bacio da portarsi nella valigia. Ma non ci vollero parole per capire che si trattava di un addio. “Il lungo addio”, dopotutto, era il titolo di un romanzo poliziesco che avevo sempre adorato, sognando più volte nel corso degli anni di essere quell’elegante, cinico e solitario detective privato.
Ti lasciai tra le braccia di quel vento fresco e caldo allo stesso tempo, la mia macchina era pronta ormai per non accoglierti più a bordo, o questo almeno è quello che disse faticosamente il motore.
Mentre te ne andavi via di spalle, facendo muovere nell’aria quella tua gonna lunga, io ripresi il cammino per andare a vedere con i miei occhi se dal punto in cui si interrompeva la strada iniziasse realmente la fine del mondo. Senza lacrime, me ne andai e non sarei mai più tornato indietro. La guerra non era affar mio.

 Lorenzo Fois