E ora, signori, il
ballottaggio. Molti elettori dovranno rifarsi le sopracciglia, altri gli
sciacqui col collutorio. Anche se i più numerosi restano quelli che dovranno
bendarsi nuovamente gli occhi, tapparsi il naso e respirare col culo.
M5S vs PD, roba che
neanche Alì contro Foreman, tanto per restare sul pezzo. Virginia Raggi che
sfida Bob Giachetti a suon di “cambiamo tutto”, l’altro che risponde colpo su
colpo “non cambierete niente”. Perché è cosa nota, se Roma è la città eterna un
motivo ci sarà. Non se move ‘na foglia
che il Papa non voglia, cantava Andreotti al festival di Sanremo mezzo
secolo fa.
Certo, il Pd ha
mostrato un certo coraggio nel presentarsi davanti ai suoi elettori dopo il “caso
Marino”, i quali se l’hanno ripagato parzialmente è stato solamente per non
vedere (ancora per poco) il M5S prendersi Roma. Anche se al Campidoglio più che
altro il movimento rischia di perdersi, perché se è vero che tutte le strade
portano lì (ai voglia a dire ancora, nel 2016, che certe cose si fanno per
passione), per sopravvivere nella giungla capitolina ci vuole quel quid, che non è il culo, che la
candidata pentastellata sembra non possedere.
L’esito ad oggi appare
scontato. Il Pd dovrebbe ripetere l’impresa appena compiuta dal Leicester di
Ranieri in Premier League, solo che al posto di Vardy e Mahrez il partito di
Matteo Renzi affida le sue sorti a politici del calibro di Orfini e Serracchiani.
Dal primo turno ne è
uscita bene la Meloni, la quale ha mostrato a Marchini che per prendere voti a
destra ci vuole sempre una certa dose di populismo. Un centro-destra che, unito,
avrebbe comunque superato il Partito democratico e si sarebbe presentato al
secondo turno con maggiori possibilità di vittoria rispetto all'agognante ex
partito di sinistra, dei lavoratori, del ceto medio ecc.
Ma è su questo punto
che vale la pena fare una riflessione. Roma non è più né mai lo sarà una città
di sinistra (centro-sinistra). Se consideriamo tutto lo scacchiere politico, il
centro-sinistra ha raccolto poco meno del 30%, sommando però i voti di Fassina,
il Berlinguer de’noantri. Di questo terzo scarso della popolazione, una buona
parte, non proviene da elettori tradizionalmente fedeli alla bandiera rossa ma
da reduci e nostalgici democristiani. Se consideriamo M5S, la destra di Meloni
e Salvini come partiti caratterizzati da populismo e scarsa diplomazia, il partito
di Marchini come l’espressione della destra per così dire liberal, parola di cui va peraltro molto fiero il presidente del
consiglio, ci rendiamo conto che, ad eccezione di un’esigua minoranza facente
parte di quel 30% (non vengono considerati gli astenuti, i quali forse non
credono più nella democrazia rappresentativa), otto cittadini su dieci non abbracciano
più le istanze tanto care alla sinistra italiana.
Quale sinistra,
verrebbe da domandarsi?
Perché se una colpa c’è,
questa andrebbe suddivisa in tante e diverse componenti: la classe dirigente in
primis; i fattori esogeni che hanno modificato di parecchio il contesto entro
cui la sinistra si trovava ad operare (la classe operaia); l’avvento delle
nuove tecnologie che ha accompagnato il disinteresse delle nuove generazioni
alla politica e alle sue tradizionali forme di partecipazione (gli scioperi, le
manifestazioni, i cortei e perfino gli scontri con la polizia).
La sinistra in Italia
è morta, di certo non da ieri. Con buona pace dei suoi aguzzini, dei suoi
martiri e dei suoi rivali. Ha trionfato il populismo, patologia intrinseca alla
democrazia. Ha trionfato il parassitismo di stato e la passività dei suoi
cittadini, sedotti dalla tecno-democrazia, rivoluzionari della tastiera. Hanno
trionfato i padroni e i loro mezzi di produzione, sempre più eterei, come “un
dio senza fiato” a cui non bisognerebbe mai credere.
In fondo, è sempre colpa
del denaro o di chi ne fa le veci.
Lorenzo Fois