Eravamo arrivati all’altro capo del mondo
dentro la nostra Chevrolet scaduta, dopo aver attraversato il deserto artico e
le montagne dalle vette liquefatte. Era un bel giorno di primavera, sarà stata
la fine di Novembre o l’inizio di Aprile, non ricordo di preciso. Prendevamo
tutti e due gli schiaffi dolci del vento sulla faccia e un sole abbastanza
timido tramontava sulle lenti dei tuoi occhiali da sole. I miei, ti ricordi, li
avevo scambiati un giorno con una chitarra senza corde. Il suo suono non ti era
mai piaciuto, del resto, cosi come le parole che affollavano le pagine dei miei
racconti. Troppo tristi e astratti, dicevi.
La radio trasmetteva una vecchia canzone che
conoscevamo entrambi, tu meglio di me, visto che da qualche tempo non riuscivi
più a fare a meno della voce di quel poeta della Pavana. Tuo padre aveva un suo
disco che custodiva gelosamente nel soggiorno, a cui per tanti anni non hai
osato avvicinarti, forse per paura.
Ogni suo verso era un’immagine riflessa allo
specchio. Ogni sua nota era destinata a durare oltre il nostro viaggio. Non lo
sapevi ancora, ma era arrivato il momento di tirare il grilletto.
Senza darlo a vedere i miei occhi guardarono
di sfuggita un cartello con su scritto “fine della corsa”, mentre te afferravi
di nascosto la tua pistola carica: un iphone
era quanto di più pericoloso possedevi all’epoca.
È da quel preciso punto che abbiamo
cominciato a scorgere le voragini aperte dal terremoto, lungo la strada deserta
e scoscesa. Dove si interrompeva la strada iniziava la fine del mondo. O forse,
più semplicemente, la fine della nostra avventura in macchina.
La crisi devastava il pianeta da sinistra a
destra, sospinta dai tumulti provocati dalle bolle finanziarie, dalle
petro-monarchie e dalle compagnie delle sbronze astemie. Quando tutto era
iniziato, baby, io e te ci eravamo detti che non ci saremmo mai lasciati, che
avremmo fermato il tempo e qualche altra bugia dell’amore.
Trovammo un motel, prendendo la strada che
portava a nord, in direzione di Berlino, passando per la Garbatella, Bologna e
Mulhollande drive. Ci lasciammo la crisi,
l’Isis e il concerto di Sixto Rodriguez alle spalle, o almeno così credemmo.
Prima di dormire fumai nervosamente un paio di sigarette, mentre te facevi
finta di sognare e intanto pregustavi in penombra l’odore rapace e sfuggente della
libertà.
La mattina, quando ci svegliammo, ricordo
bene quell’espressione impressa sul tuo volto. Sembravi un’equilibrista zoppo sopra
un filo interdentale. Non ti dissi niente e ordinai due caffè, entrambi per me.
La colazione era come vomito sopra un muffin con le gocce di cioccolato.
Ripartimmo che il sole ancora sbadigliava,
sopra il viso assopito di quel cielo pieno di lacrime e ripensamenti. Era un
giorno come un altro, un viso come ce ne sono tanti.
Era passato parecchio tempo dal giorno in
cui partimmo assieme, fuggendo da quella assurda guerra fra uomini e donne.
Scappavamo soprattutto per cercare quell’isola che credevamo nessuno avesse mai
visto prima. Un’isola solo per noi. Eri così giovane e ingenua ed io così
ingenuo e vecchio.
All’improvviso i tuoi occhi mi apparvero velatamente
infelici: finalmente ti eri levata quella maschera di dosso. O forse, più
semplicemente, ci eravamo resi conto dopo tanto vagare che quell’isola non esisteva e che nessuno
l’avrebbe mai trovata. Ancora.
Nemmeno noi.
Domandarsi il perché non sarebbe servito a
niente, baby, dare un’occhiata a Google
maps non avrebbe reso più dolce la triste scoperta. I ricordi, giunto alla
mia età, cominciavano ad affollarsi nella testa ed io ero stanco di sopportare
il peso della guida, tu probabilmente quello di starmi accanto. In un attimo,
dimenticasti le palme, il mare, la sabbia, quell’isola.
Prima dell’ultima sosta, vedemmo soltanto
degli strani tipi con dei baffi tatuati fotografare il niente attraverso un
barattolo di pomodori. E anche un ristorante completamente vuoto da cui
proveniva una musica techno-gitana da cui emergeva distintamente il suono di
una cornamusa della Cornovaglia meridionale e di un trapano riprodotto a mano
da un cabarettista cinese.
Probabilmente i segni della guerra civile
che aveva lasciato tracce indelebili sul nostro futuro: mai come in quel
momento avevo sentito la desolazione del mondo e rimpianto il passato.
Era qualche minuto che il tuo telefono aveva
smesso di funzionare ed io avevo finito l’ultima stecca di sigarette. Non
c’erano bar aperti e nessuna speranza per il mio fumo e le tue ricariche
telefoniche. L’attesa dell’ultima fermata diventava sempre più straziante, in
preda del tuo silenzioso panico. Ormai avevi deciso però, la guerra valeva la
pena.
Mi fermai esausto all’inizio di una grande
strada di cemento rialzato, recintata da pali elettrici e filo spinato. Doveva essere
stata la pista di atterraggio di un aeroporto, prima della guerra.
Non fu facile guardarsi negli occhi per
l’ultima volta, senza il sapore di un bacio da portarsi nella valigia. Ma non
ci vollero parole per capire che si trattava di un addio. “Il lungo addio”,
dopotutto, era il titolo di un romanzo poliziesco che avevo sempre adorato,
sognando più volte nel corso degli anni di essere quell’elegante, cinico e
solitario detective privato.
Ti lasciai tra le braccia di quel vento
fresco e caldo allo stesso tempo, la mia macchina era pronta ormai per non accoglierti
più a bordo, o questo almeno è quello che disse faticosamente il motore.
Mentre te ne andavi via di spalle, facendo
muovere nell’aria quella tua gonna lunga, io ripresi il cammino per andare a
vedere con i miei occhi se dal punto in cui si interrompeva la strada iniziasse
realmente la fine del mondo. Senza lacrime, me ne andai e non sarei mai più tornato
indietro. La guerra non era affar mio.