mercoledì 21 marzo 2018

Al peggio non c'è mai fine


Esiste qualcosa di peggiore di un governo di destra?
Si, un governo di destra e di incompetenti. Per il resto, siamo Messi anche peggio. E non solo per ‘colpa della pulce argentina’, il thriller più atteso della stagione.
Ci rubano i dati per scopi elettorali. Capirai. Il problema semmai è che qualcuno ha furtivamente sottratto le nostre capacità intellettive. Per questo ci stiamo affidando ai robot. La chiamano intelligenza artificiale e uno magari pensa alle navicelle spaziali. E invece no, è solo un altro modo per creare un dislivello fra chi è proprietario e chi non possiede nulla. Un tempo almeno ci si poteva rifugiare dietro strane figure mitologiche: le ideologie, la cultura, gli intellettuali, la musica. Ormai bandite dalla società. Perché non è bello che ci siano differenze fra le persone, oggi che Internet e i social network hanno azzerato le distanze. Nessuno deve più spiegare nulla, nessuno sente più il dovere di stare ad ascoltare qualcuno che ha più titoli o che è più preparato. Perché “è finito il tempo dei Professori, dei Dottori, dei Cantautori”. La società si è messa in proprio.
Qualcuno obietterà che sono semplicemente cambiati i tempi. Del resto, si è anche passati da Omero a Dante e da Dante a Shakespeare. Ci sono voluti secoli per farlo. Oggi invece i cambiamenti avvengono alla velocità della luce, così repentini che uno è convinto di andare a lavoro hipster e poi scopre di ritornare a casa vintage.
Esiste qualcosa di peggiore di un governo di destra?
Si, un governo di sinistra che ha dimenticato cosa significa essere di sinistra. Che ha abbandonato gli ultimi per sedurre i primi. Che ha rottamato la piazza per la fica. “Compagni, lavoratori, statevene a casa e seguiteci su Instagram o sulla nostra pagina Facebook. Ai primi mille follower regaliamo un mese gratis su Amazon Prime”. 
Anestetici come se piovesse. E ormai piove sempre. Chiedetelo ai romani, di questi tempi.
Esiste qualcosa di peggiore di un governo di destra?
Al peggio non c'è mai fine.

lunedì 5 marzo 2018

Zero uguale zero



Le campagne elettorali vanno a finire sempre allo stesso modo, ormai c’abbiamo fatto il callo: non vince mai nessuno. Nessuno ha i numeri, al massimo li da. Propaganda che si trasforma in impasse.
Quindi nessuna uscita dall’Euro, nessuna pensione minima a mille euro, nessun reddito di cittadinanza. Fuori ai supermercati troverete ancora i venditori ambulanti e le macchine in doppia fila. Le vostre macchine in doppia fila.
Prima le ruspe, poi gli italiani.
Come vedete il paese tra dieci anni?
In cartolina.
Una bella foto delle Dolomiti e un’altra delle Eolie. La natura è la sola cosa che non possiamo delocalizzare e che i cinesi non riescono a taroccare.
Intanto, l’unica certezza è che ci saranno una miriade di politici onesti, che bello. E con l’onestà cresceranno gli investimenti, l’occupazione, i salari, la natalità.
Il paese tornerà un faro dello sviluppo, come lo fu nel 1400. Perché vi spaventate tanto quando sentite dire: siamo tornati al Medioevo?
Dovete aver fiducia in Di Maio o in Salvini. Sono giovani, si faranno. Come si fanno tutti i giovani del resto. Avete diffidato da quelli che si “sono fatti da soli” perché, si sa, le cose vanno condivise. Avete diffidato da quelli che a 40 anni sono spinti dai poteri forti poiché, in fondo, a 40 anni c’è ancora chi deve laurearsi o sta al sedicesimo tirocinio.
Loro invece no, loro sono come noi, ragionano come noi, sbagliano come noi. Non vi mettono in difficoltà, nessuna soggezione a tavola con loro. Questo è il compimento della democrazia se ci pensate. Uno uguale uno, ma anche zero uguale zero.

giovedì 1 marzo 2018

Un settantenne malandato


Mio padre era comunista, mia madre invece fascista. La storia inizia in questo modo, una notte del 1945, a Roma. Io sono il risultato della loro unione, non dico perfino del loro amore. Infatti si trattò più che altro di uno scontro fortuito. Un figlio non voluto, ma capitato. Come tanti altri.
Da piccolo, tuttavia, il più delle volte ero molto coccolato: ero considerato un dono del Signore, date le premesse, anche se mio padre relativizzava sempre, non credendo molto nell’aldilà. Quando non c’era mia madre, era solito chiamarmi Karl mentre si accarezzava i baffi folti e lunghi. E lo stesso faceva lei, quando rimproverandomi per un non nulla mi strillava, con il braccio teso: Benito, attento a te!
L’equivoco di fondo, infatti, era stato sin da subito celato dal mio nome: non riuscendosi a mettere d’accordo, fecero un compromesso e mi chiamarono Democrazia.
Il problema è che io sono nato maschio e il nome si riferiva ad un sostantivo femminile. Ma loro, che la scuola non la frequentarono a lungo, non ci videro niente male a riguardo. Poco gli importava poi dei vicini di casa, degli insegnanti, dei compagni di scuola e delle loro famiglie. Dopotutto, erano molto orgogliosi della loro creazione e l’avrebbero difesa anche con l’uso della forza. Si, proprio l’uso legittimo della forza dissero un giorno.
La mia nascita è stata per loro un momento di pace e di armonia. Prima infatti, per quanto condividessero lo stesso tetto, si mal sopportavano. La vedevano diversamente su moltissime cose, quasi su tutto: dalla famiglia, al lavoro, passando per la religione.
Mio padre, in nome del buon proletariato, voleva dei figli ma solo per ricevere in cambio da loro un salario. Mia madre, nata per prendersi cura della casa, voleva invece dei figli da educare in un certo modo, avendo passato la maggior parte del suo tempo a ricamare, sin dal loro matrimonio, dozzine di camicie nere.
Anche sul tema del lavoro si scontravano spesso. Con mia madre che accusava il marito di essere poco ambizioso e mio padre che di rimpetto faceva notare alla moglie di essere stata persuasa sin da bambina unicamente al richiamo del manganello. Ma lui era un operaio e non un poliziotto o un guardiano notturno, ripeteva sempre.
Insomma, non senza molte difficoltà resistettero fino al giorno, come ho già detto, che venni al mondo io. Un maschio nel corpo di una donna. Un diverso, un esperimento.
Ad ogni modo, fu da quel momento che le cose andarono via via migliorando, almeno fino ad un certo punto.
Fino alla mia adolescenza, infatti, ricordo di non aver mai avuto grossi problemi, specialmente a casa. Giusto qualche tensione, se non proprio crisi, ma come in tutte le famiglie del resto.
Ricordo soprattutto quelle del 1977 e del 1980, anche se ormai ero già un adulto ed avevo portato a galla tutte le mie contraddizioni irrisolte dal 1968 in poi. Io per primo, e loro in un secondo momento, si erano improvvisamente resi conto che c’era qualcosa di profondamente contraddittorio ed irrisolto in me. E si erano convinti in qualche modo che il problema fosse legato al mio nome.
Così, prima lui e dopo lei, avviando delle consultazioni, vollero persuadermi di cambiare nome all’anagrafe. Non capendo che purtroppo la faccenda era un po’ più complessa. Il mio non era un nome come tutti gli altri: era stato già consegnato ai libri di storia.  I loro sforzi di chiamarmi Colpo di Stato (mia madre) e Internazionale (mio padre) risultarono dunque vani.
Tuttavia, quella fu una delle ultime occasioni in cui mi sentii vicino a loro. Fu nel 1982, poco dopo la vittoria della Coppa del mondo di calcio da parte della nazionale italiana, che interrompemmo, o quasi, i nostri rapporti. I miei, anche se ufficialmente non si erano mai separati, incontravano sempre maggiori difficoltà nel condividere ancora lo stesso tetto ed io, abbandonata la nostalgia degli anni felici, avevo ormai intrapreso una strada che guardava fuori i confini domestici.
Qualche anno più tardi, agli sgoccioli degli anni Ottanta, era il 1989, mio padre morì. Era malato già da tempo. Mia madre, ormai avanti con l’età, non assistette nemmeno al suo funerale ma lo vide dalla televisione. Fu un evento planetario. Mia zia mi raccontò un giorno di averla vista versare perfino una lacrima, che prontamente asciugò con un vecchio fazzoletto nero e liso sopra cui erano incise le iniziali B.M.
Non fu facile per lei in effetti, perché venne a mancare l’unico punto di riferimento della sua vita, quello attraverso cui, in costante contrapposizione, era riuscita a farsi delle idee.


Gli anni a seguire furono anni di trasformazione in cui, seppur non più giovanissimo, dovetti imparare decine di lingue differenti convivendo con le culture più disparate: francese, tedesca, spagnola, inglese, scandinava, greca, ungherese, polacca ecc.
Avendo vissuto da vicino l’esperienza conflittuale della mia famiglia, mostrai segni di perplessità circa la tenuta di questo complesso e precario sistema interculturale, ma essendo io per primo il risultato di un esperimento, non obiettai a lungo e acconsentii alla nascita della nuova Comunità. Era il 1993.
Due anni più tardi nacque il mio primo figlio, frutto dell’intesa bilaterale fra me e la mia partner francese. Lo chiamammo Erasmus, auspicando per lui un futuro fatto di internazionalismo e cooperazione.
Quando telefonai a mia madre per darle la notizia, chiedendole se avesse avuto piacere a conoscerlo, rispose inizialmente di sì. Ma i suoi toni si fecero via via meno entusiasti, per non dire freddi, quando le comunicai il nome e il colore della pelle. Erasmus infatti era nato con la pelle nera e sebbene fosse lo stesso colore a cui era stata affezionata sin dall’adolescenza, sua nonna non espresse più, in seguito, il desiderio di volerlo abbracciare.
Nel 1999 nacque il mio secondo genito, frutto dell’unione che stipulai con la mia nuova partner tedesca. Per lui scegliemmo un nome breve, Euro, anche se per metterlo al mondo ci volle parecchio tempo. Entrambi nel pieno della nostra maturità, io e la mia compagna incontrammo infatti non poche difficoltà per giungere alla fecondità del progetto. Ma ci riuscimmo.
Nel frattempo i rapporti con mia madre erano diventati praticamente inesistenti: lei non riusciva più a rintracciare niente di familiare in me e in tutto ciò che fino a quel momento avevo costruito, troppo moderno e progressista secondo il suo punto di vista. Lei che ancora ricamava a mano camicie nere, nonostante l’età quasi centenaria, e usava espressioni del tipo “se ci fosse ancora lui” e “c’è bisogno di un po’ di pulizia e olio di ricino”.
Ma i vecchi, si sa, sono dei nostalgici ed io non riuscivo ad avercela con lei nonostante i moltissimi episodi spiacevoli, quasi al limite della convivenza civile, contrari alla mia natura per certi versi incline al pacifismo. Tuttavia, era pur sempre mia madre.
Con il passare degli anni, le discussioni e i contrasti all’interno della mia (nuova) famiglia aperta e progressista non mancarono certamente. Il primo genito, Erasmus, andò via di casa molto presto, ma in fondo, a parte le continue richieste di denaro che ci faceva pervenire dalle parti più disparate del continente, non destava in noi troppe preoccupazioni. Gli ultimi aggiornamenti ci sono giunti da Madrid, dove risultava iscritto alla facoltà di Scienze politiche, anche se non sapevamo bene con quali risultati. Precedentemente infatti aveva già frequentato, salvo abbandonarle poco dopo, tre diverse facoltà.
Più problematico, sin da piccolo, fu invece il secondo dei miei figli, Euro, cresciuto velocemente e in modo quasi incontrollato. Particolarmente dotato in ambito scolastico, soprattutto nelle discipline tecnico-scientifiche, aveva mostrato sin dai suoi primi anni di vita un’insaziabile esigenza di autonomia e una riluttanza esasperata nel seguire qualunque tipo di regola. Le sue frequentazioni giovanili poi non lo aiutarono di certo, entrando in contatto con certi ambienti anarchico-monetari di stanza fra Bruxelles e Francoforte.
Il nostro ultimo scontro è ruotato attorno alla rispettive concezioni della politica, dell’economia e della società. Come la gran parte dei giovani, anche mio figlio tendeva ad ignorare gli insegnamenti della storia e giudicava tutto ciò che non avesse implicazioni tecnologiche, o con uno scarso impatto in termini di business, come un qualcosa di obsoleto e anacronistico. La filosofia, il diritto, la storia e l’arte erano, nel loro complesso, discipline inutili e da abolire. “Il mondo, papà, non è più come te lo immagini”.


Mi ritornavano in mente le parole di mia madre che scambiammo in occasione del nostro ultimo incontro: “tu sei troppo tollerante, questo è sempre stato il tuo problema. Persino tuo padre aveva più carattere di te”.
Pur ritenendo, alla luce dei fatti, quell’affermazione non del tutto errata, ormai gli eventi avevano preso un loro corso, per certi versi autonomo e inarrestabile, e consideravo abbastanza inutile interrogarsi sui comportamenti passati e sulle eventuali responsabilità.
Tutti i miei vecchi amici e colleghi stavano incontrando le stesse difficoltà con i loro figli, del resto, sospesi a metà tra la consueta e innata propensione all’integrazione e la nuova e irrefrenabile ondata di intolleranza repressiva. Sembrava di essere tornati ai tempi dell’instabilità che precedette lo scoppio delle due guerre mondiali, anche se all’epoca io e la mia combriccola ancora non eravamo nati.
Forse per questo motivo non riuscivamo più a dare, da qualche tempo, un’interpretazione agli eventi. Non sapendo che pesci pigliare, brancolavamo nel buio.
Ormai le nostre riunioni somigliavano sempre più a quegli incontri piuttosto patetici fra reduci e veterani della guerra. Solo che noi la guerra non l’avevamo mai combattuta e nemmeno vista da vicino. Il mondo era davvero cambiato e le nostre teorie e ricette non erano più efficaci per cercare di dargli una sistemata. Eravamo dei malati sul viale del tramonto: cercavamo a tutti i costi una cura ma non stringevamo tra le mani nemmeno una diagnosi precisa. Nessun medico e nessuna medicina facevano al caso nostro.
Qualcuno di noi, sopraffatto dagli eventi che la Storia in modo ciclico scaglia sulla Terra e sulle vicende umane, aveva finito per cedere alla liturgia del Terrore, quella incredibile messa in scena di barbarie e populismo che spinge le persone, specialmente i più poveri e disagiati, a farsi la guerra tra loro. Quelle stesse persone che ora ci minacciavano, a me e ai miei anziani compagni, avendo decretato anzitempo la fine della nostra gloriosa epoca.
Una guerra civile, scandita da parole come “razza” e “supremazia”, stava conducendo il mondo sull’orlo dell’oblio. Ed io, purtroppo, non ero attrezzato per questo genere di situazione.
Con i miei figli lontani, fisicamente o mentalmente, e mia moglie alle prese con una crisi di nervi, non mi restava che riallacciare un qualche rapporto con la persona che mi aveva creato, la sola che era rimasta in vita, nonostante i suoi cento anni passati. In fin dei conti, sembrava più attrezzata di me nell’affrontare scenari tanto violenti e irrazionali.
La sua longevità, unita alla forza di cui ancora disponeva, rappresentavano un fatto eccezionale. Io, più giovane di lei di trent’anni, ero messo molto peggio, malconcio e malandato come un pensionato scolpito in una poltrona reclinabile.
A ben vedere, anche se contrario ai principi della natura, era molto più probabile che fosse stata lei a seppellirmi. E non viceversa.
Mio padre era comunista, mia madre invece fascista. Mentre lui non poteva più essere niente, se non polvere, mia madre avrebbe continuato ad esserlo. E chissà per quanto tempo ancora.


Lorenzo Fois