mercoledì 30 aprile 2014

I due santi


A chi, tra la folla, domandava “qual è il santo?”, i consiglieri del Vaticano rispondevano che per questa occasione “a pagare non sarebbe stato Lui”, aggiungendo di soppiatto che il famoso e vecchio detto si sarebbe presto contraddetto. Non c’era più due senza tre: restava l’otto per mille.
Per cui, si capì presto, che a pagare sarebbero stati sempre i più poveri, sopra ai quali intanto era iniziato a piovere, proprio perché pioveva sempre sul bagnato e i fedeli non avevano ancora sostituito i pneumatici da corsa. Nessuno infatti li aveva avvertiti della pioggia. Nessuno si era speso in difesa di quella povera gente. I miracoli non li faceva più nessuno! Non era aria per andare in Paradiso, dissero dai piani alti, non c’erano più i santi di una volta. Questi erano altri tempi, la crisi imperversava, l’unico Banco buono era quello dei pegni.
San Pietro, intanto, dall’altro dei cieli, seduto vicino al trono di spade, il mazzo di chiavi non riusciva a trovare, sicché nessuno poteva avvisare il Sommo Padre, il quale, data la sua longevità, dopo pranzo era solito riposare. Peraltro, era da molto tempo che nessuno lo riusciva ad avvistare, nemmeno col telescopio della Nasa, all’interno del sistema solare: San Pietro, insomma, aveva un bel da fare. Lui, il fondatore e guardiano della Chiesa di Cristo, lui, il primo follower della Storia, si ritrovava a dover dare un mare di spiegazioni a tutti quei miscredenti, gente che si domandava il perché di due santi, di due morti e di due Papi viventi.
Nessuno rispondeva, non c’era Papa che sapeva parlare, né quello muto e nemmeno quello che sapeva ballare. Morto un Papa se ne fa un altro … E allora perché i funerali non c’erano mai stati? La Chiesa non riusciva a comunicare con quelle persone, quasi mezzo milione di seguaci. Che intanto, zuppi e affamati, iniziavano a bestemmiare. La canonizzazione era una parola da evitare. I pensieri correvano immediatamente a nuove tasse da pagare. Per di più che i giornalisti della Rai si arrampicavano da più parti, come specie di ortiche rampicanti.
Intanto nuovi dilemmi si accavallavano nelle menti della folla: il segreto di Fatima, le dimissioni del Papa, le previsioni del tempo, cacio e pepe o ‘na pajata! È meglio un uovo oggi o il paradiso domani? Niente, nel silenzio più totale, due preti dietro l’altare in abito talare. Due tombe vestite di oro da dover consacrare. Fatto un santo se ne fa subito un altro. Morto un Papa se ne sceglie un altro. Restava solo da chiarire il significato di due fotocopie in bianco. Due immagini diverse riflesse sullo stesso specchio e un pizzico di stupore impresso nella faccia del serpente…






domenica 27 aprile 2014

Il profilo migliore (parte seconda)



La mattina mi alzai di buon ora, anche se non avevo più un’ora in particolare per dovermi svegliare. Non avevo più un lavoro, soprattutto, ma avevo trent’anni, dopotutto, ero ancora giovane. Il mondo era pieno di opportunità, pullulava di ragazze. Ma soprattutto di ragazze che avevano facebook: il gioco sarebbe stato molto più facile. Senza neanche fare colazione e lavarmi, iniziai la scalata al mondo della socialità virtuale. Primo passo: registrazione dei dati. Nome, cognome, data di nascita, indirizzo email. Tutto ciò che avevo accumulato sin dalla nascita era ora a disposizione della Rete, come una bacheca dietro alla quale esporre trofei. Se prima ero critico nei confronti di questo sistema, adesso non ero più interessato a sapere chi o cosa ci fosse dietro questa presunta Rete. In fondo, come nello sport, contava solo il risultato. Secondo passo: creare il proprio profilo. E qui, dovetti riconoscere, la situazione si mostrava più complicata di quanto pensassi. Sebbene la superficialità avesse ormai intaccato come un cancro il mio sistema psicofisico, trasformando la mia volontà in qualcosa di estremamente labile e confuso, non avevo abbastanza dimestichezza con le parole d’ordine della sua essenza. Senza contare che in quel periodo ero totalmente all’oscuro circa il significato di espressioni come “farsi un selfi”, “whatsappare”, “likare”, “farsi taggare in una foto”, “commentare un post”, “twittare”, che erano un po’ il minimo comune denominatore della vita 2.0. Per correre ai ripari, prima di procurare danni eventualmente irreparabili, dovevo assolutamente cercare su Google (“googlare”) una sorta di manuale per il buon uso del social network. Era indispensabile quanto una chela di granchio nel deserto: non potevo proprio farne a meno. Navigando e scorrendo tra i vari siti, blog, indirizzi e link la mia attenzione si era fissata su di uno che forniva alcuni sottili consigli per neofiti del social. Secondo le tesi degli autori, questi consigli avrebbero inserito rapidamente il soggetto in una posizione di predominio assoluto nella logica di business (economico, relazionale, antropologico e culturale) che è propria del social network. Di facebook. Iniziai con grande interesse a leggerne il contenuto. I consigli erano molto ampi, abbracciavano tutta la vita sociale all’interno del grande libro della falsa amicizia, tutta la gamma delle azioni possibili ed anche di quelle meno consigliabili. Ovviamente, tenevano a specificare gli autori del blog, non tutti arrivavano allo stesso risultato. Anche se propedeutico, il passato e l’intelligenza del soggetto rappresentavano un ostacolo o un spinta nella corretta gestione del profilo. Da quello che ero riuscito a carpire dalla lettura meticolosa di quelle poche righe, io mi potevo ritrovare tutto sommato in una posizione vantaggiosa, considerando il mio ricco passato sociale, l’attuale condizione di single che agevolava ogni tipo di relazione su Fb, la voglia di rivalsa sulle recenti disavventure che la vita mi aveva preservato. Dovevo costruire però la mia immagine: servivano dei ritocchi. Servivano delle bugie e delle forzature. 
Procedetti in quest’ordine: se l’immagine e l’apparenza erano le fondamenta di questa nuova vita, io dovevo assolutamente mettermi in pari per quello che riguardava il look. Il primo passo non poteva che muovere dall’abbandono del mio "vecchio" stile per passare a quello maggiormente in voga nei circoli musicali, ma soprattutto quello che piaceva più alle ragazze ai tempi di facebook: l’hypster-mania poteva considerarsi la prima forma di rifiuto della mia personalità per approdare ad una spersonalizzazione dell’identità che mi avrebbe consentito di apparire più sicuro, carino ed interessante agli occhi delle mie future amicizie. Così andai in qualche centro commerciale, selezionando i capi d’abbigliamento secondo le direttive impressemi dai miei primi mentori dopo i vari Bukowski, John Lennon, Fabrizio de Andrè, Che Guevara.  Jeans stretti, talmente stretti da minacciare la virilità del mio più antico gingillo, possibilmente neri, dovevano cadere con scrupolosa cura sopra degli stivaletti di pelle, anch’essa nera. Magliette larghe, lunghe e scollate: se i peli fossero debordati come l’acqua dalla pentola sarebbe convenuto, a detta dei miei tutor elettronici, procedere alla depilazione. Una mantellina, sempre di colore nero, avrebbe dato eventualmente un tocco in più. Per completare il gioco mancavano tuttavia minuziosi quanto fondamentali accessori. Per primo, bisognava appesantire le proprie dita di metalli a forma di anello, come quelli che indossavano le ragazze. Secondo poi, sapienti tatuaggi avrebbero decorato braccia, gambe e schiena, donando finalmente un po’ di colore e facendo breccia all’interno di quel look "total black". Un taglio di capelli, rigorosamente più corto ai lati e più lungo nella parte superiore, avrebbe completato definitivamente il mio passaggio all’altra sponda identitaria. Ancora meglio, scrivevano gli autori del blog, se il soggetto interessato avesse disposto in natura di capelli ricci o mossi: il contrasto sarebbe stato più cool. Io ero stato dotato da Madre Natura di fluttuanti onde castane. Qualcosa mi faceva pensare che sarei presto diventato qualcuno! Il profilo migliore …
Adesso tutto era pronto ed organizzato per far debuttare la mia nuova identità in Rete: dovevo giusto scattarmi qualche foto, un selfi andava più che bene, e il gioco era fatto. Ultimo passo: aggiungere le amicizie e restare ad aspettare. Due, tre, cinque, dieci minuti di impasse più totale precedettero un exploit inaspettato. Fra l’incredulità dei partecipanti al libro delle facce e i commenti più disparati su questa mia trasformazione, ricevetti in un solo giorno 300 richieste di amicizia, due terzi delle quali provenivano da donne.
Il sogno di un trentenne cui la vita reale aveva tolto certezze e inflitto batoste e legnate in modo forse eccessivo era sul punto di realizzarsi grazie all’uso sapiente e lungimirante del social network. Ora Marco Occhiolungo poteva vantarsi di possedere più di 3.500 amici virtuali, di essere stato taggato in 2.340.000 foto, di essere stato immortalato in più di 20.000 selfie e di essersi fidanzato con 365 donne nello stesso anno. Era uno degli hypster più in voga sulla rete, pur non facendo nulla dalla mattina alla sera. Usciva soltanto la notte per esibire i suoi anelli, i suoi tatuaggi e i suoi vestiti che facevano tendenza. La sua vita era cambiata, per sempre, e non ci sarebbe stato verso di tornare indietro.

Il profilo migliore (parte prima)



L’altra sera, rientrato a casa, piangevo per la disperazione: avevo perso il lavoro, la mia ragazza mi aveva snobbato ancora prima di tradirmi e anche il cane, una volta sempre pronto a farmi le feste, sembrava dicesse dentro di sé: “eccolo, è tornato, è sempre lui!”. Tutto questo mi faceva sentire un fallito. A conti fatti, lo ero. Amore, denaro, salute: l’oroscopo segnava un clamoroso zero sopra ogni casella. Così ho provato a chiamare un’amica, per prima, poi un’altra e un’altra ancora. Non rispondeva mai nessuno, però. Sembrava non esserci proprio nessuno dall’altra parte del filo ed ero già abbastanza solo, da solo. Ho tentato dunque miglior fortuna provando col sesso maschile. Metabolizzata la delusione legata alla possibile presenza consolatoria di una compagnia femminile (un paio di tette mettono sempre il buon umore), mi sarei accontentato anche di qualche pinta di doppio malto da scolare di fronte ad un paio di baffi ed una sfumatura di carpe old school sull’avambraccio. Ho iniziato così a spedire messaggi a non finire, spesso più d’uno allo stesso contatto, fino a farmi prendere dall’artrite. Fui costretto a fermarmi qualche minuto. Ma non avevo intenzione di arrendermi: volevo parlare, avevo bisogno di sfogarmi, di ubriacarmi. Avevo solo bisogno di un amico, ma non trovavo nessuno. Zero amicizie, tutto d’un colpo. Ero invisibile, bloccato, dimenticato, cancellato. Semplicemente non interessavo a nessuno. Unlike me.
Mentre tentavo di recuperare le forze in compagnia della dama bianca, dopo lo sforzo eccessivo che avevano compiuto le falangi e falangette varie, non sapevo cosa fare, cosa altro tentare. Avevo pensato perfino al suicidio ma poi lo avevo scartato immediatamente: anche per quel genere di cose ci vuole coraggio. A meno che non ti fai una pera e chissà, quel che succederà dopo lo sa solo Dio, ammesso che a lui interessi saperlo. Io però non lo sapevo, non lo avevo mai saputo, e non lo avrei mai provato. Dovevo sbrigarmi tuttavia a cambiare volto: il mio nuovo profilo doveva palesarsi al resto del mondo, prima che non ne avessi più avuto la possibilità.
Ero ancora vivo, dunque, anche se a stento mi trascinavo da una parte all’altra della casa, raggiunto così di soppiatto dall’alito soporifero della depressione. In realtà, pochi metri quadrati erano diventati una maratona infinita. Quale era il traguardo? Quale la decisione finale? Mi sedetti in cucina, il posto della casa dove meglio funzionava il wireless, con gli occhi diretti allo schermo del pc e lo sguardo che tuttavia riusciva perfettamente ad oltrepassarlo. Dopo lunghi minuti di ricerche e navigazione non avevo scovato altro che documenti senza senso: la tesi di laurea di molti anni prima salvata in pdf e poi tantissime foto di me e della mia ex ragazza, dei miei ex amici, del mio ex cane, della mia ex vita. Nulla aveva più senso. Niente era più come prima. Decisi perciò di aprire un sito porno, uno a caso, avendo scelto per quel momento la via della masturbazione. La mano fu più rapida nell’esecuzione che nella scelta oculata del materiale audiovisivo e così dopo mezzo minuto corsi in bagno a levarmi di dosso il seme del mio fallimento.
Mi sentivo leggermente meglio, grazie all’effetto del piacere-lampo, e per questo avevo deciso di addormentarmi. L’indomani sarebbe iniziata una nuova vita, senza più lavoro, senza una relazione stabile, solo un vecchio cane ingrato che mi guardava, pur sempre dal basso, ma con aria di superiorità. Serviva un cambiamento profondo, ed eccolo che arrivò. Mi erano venute in mente le parole dei miei amici, quelli che allora credevo fossero tali, tatuaggi-barba-rasatura ai lati, quando mi dicevano: “sei fuori dal mondo! Non hai facebook, non hai whatsapp e nemmeno twitter. Ma dove credi di vivere? Il tempo dei rivoluzionari è finito da un pezzo”. Io rispondevo alla sfida, tronfio di sapere, che non si trattava di rivoluzione ma semplicemente di buon senso, di disgusto per il disgusto, di amore per la privacy e per le buone maniere. Io – sostenevo a quel tempo – ero palesemente nel giusto e loro, abitanti di un mondo virtuale, erano dei poveri disgraziati, vittime dell’insicurezza generazionale e della moda passeggera. Chi dei due sbagliava? Beh, evidentemente ero io in errore. Io che peccavo di presunzione, che mi davo delle arie, che non guardavo al concreto, a come girava il mondo. “L’amicizia non è una valore, è un opportunità”, mi dicevano questi profeti del piacerismo.
Era dunque arrivato il momento di guardare in faccia la realtà. Era giunto il momento di crearmi un profilo su Facebook …  

venerdì 4 aprile 2014

L'ostage


Ci sono parole che possono essere fraintese. Tipo bontà. Altre che possono avere un doppio significato. Ad esempio il verbo battere. Altre che di per sé non significano nulla, come assolutamente. Altre ancora che possono avere un diverso significato, come il sostantivo femminile cozza. Per tutto il resto c’è sempre una parola buona e una cattiva da dispensare. Ma c’è una sola parola il cui significato è totalmente oscuro, promiscuo e ingannevole e questa è ostage. Con questo termine ci si riferisce a quella miriade di situazioni condizionanti il mondo del lavoro contemporaneo. Solitamente riguarda i giovani compresi tra i 24 e i 33 anni. Quelli che hanno studiato, che si sono fatti una cultura, che hanno imparato la fregatura di una tale istruzione e che stanno cercando disperatamente un lavoro. Un lavoro che manca, un lavoro che è acqua nel deserto, un lavoro che è feroce competizione per un ruolo da schiavo nella catena del niente. Paolo, 32 anni, laurea in scienze politiche, master in politiche pubbliche, vive ancora con i suoi genitori, è al suo dodicesimo ostage in altrettante aziende.
Chi di voi non ha mai sentito parlare di ostage? Chi di voi non è caduto nella sua morsa? Chi non darebbe una mano pur di essere un'ostagista per caso? Essere chiamati per un ostage non retribuito, a conti fatti, può essere spesso vista come la sola possibilità per farsi breccia all’interno dell’azienda, sperando di poter mettere in mostra le proprie capacità e magari, un giorno, di essere assunti nell'organigramma aziendale. Magari, ti dicono, quando la crisi finirà.
E così scopri lentamente che quel giorno non arriva, la crisi non sembra volgere al termine, e tutto al più in molti sperano di poter essere confermati quantomeno come ostagisti. Imparare il lavoro e non vedere un soldo bucato per i propri servigi, di qui alla pensione che non arriverà mai. Anch’essa.
Il padre di Paolo in fondo aveva sempre insistito col figlio, sin da piccolo, quando a casa si cimentava nella riparazione di qualunque cosa: “impara da me figliolo, che un giorno ti tornerà utile”. Ma niente, Paolo giocava col game boy. Ah, quanto rimpiange ora il fatto di non aver imparato un mestiere! Ora avrebbe potuto arricchirsi come idraulico, muratore, elettricista, aiutato quel tanto che basta da un pizzico di evasione fiscale garantita dallo Stato… Paolo si rammarica ancora di più quando vede e sente che per quei lavori vengono ingaggiati soltanto gli stranieri. Su tutti: romeni, lituani, polacchi, magrebini. Chissà cos’hanno più di lui, si domanda? Qualcuno gli ha suggerito che molto dipende dalla mancanza di voglia di molti suoi coetanei e connazionali di sporcarsi le mani, di fare lavori umili. E così un giorno Paolo ha smesso di lavarsele. Ha letto inoltre da qualche parte, ma non ricorda dove, che questa straziante situazione è imputabile anche alla mentalità piccolo borghese della generazione di italiani nata dal secondo dopoguerra in poi. Tutti che volevano un figlio dottore, dopo il benessere si sono trovati a fare i conti con figli depressi e disoccupati … La colpa non è soltanto sua, così, continua a ripetersi guardando le mani che giorno dopo giorno si anneriscono sempre di più.
Ma Paolo non demorde. Paolo ha un carattere forte. Continua a dimenarsi e a districarsi da un ostage a un altro. Ostaggio del suo stesso ostage, ostagista dimenticato e appasionato. In cerca di un altro ostage, di un ostage migliore. In questo mondo c’è sempre un ostage migliore. Ma anche uno peggiore. E questo Paolo lo sa, sa che in tutto questo centra anche la fortuna. La solita maledetta botta di culo. Il solito disperato calcio nel culo …