Obama è stato
a Roma. Ha visitato la città, i suoi monumenti: il Vaticano, il Colosseo, i
palazzi del governo. È rimasto impressionato dalla loro grandezza. Al cospetto,
ci fa sapere, uno stadio di baseball è un minuscolo pezzo di prosciutto
incastrato fra i denti. Roma è una città meravigliosa, del resto, passata alla
storia per i suoi antichi fasti. Roma è anche una città eterna, passata però alle
cronache moderne per le sue disfunzioni in materia di mobilità stradale. Data la condizione di eternità risulta peraltro evidente quanto sia più corretto e generoso parlare di immobilità (stradale, professionale, ambientale, tecnologica). Due
sole linee della metropolitana, autobus fatiscenti e in perenne ritardo,
conducenti prelevati dalle patrie galere, traffico in tilt a qualsiasi ora del
giorno, smog e inquinamento a livelli apocalittici rendono infatti caotica e
sempre più invivibile questa città. Eppure Roma è sempre bella, conserva il suo
status quo come poche altre al mondo, e i romani continuano a resistere come
famigerati mangiatori di spaghetti. I
papi cambieno ma la Chiesa è sempre al suo posto. Magari non sarà più al
centro del villaggio, ma il villaggio oggi è un spazio fluido, lo spazio dei
flussi. Non bisogna preoccuparsi per Roma, perché Roma è sempre al suo posto. I
turisti ancora si accalcano per vedere il Colosseo, anche se sono in corso le
opere per la sua pulizia (forse si dovrebbero ripulire anche le strade,
sussurra qualche abitante). Ed ecco che in un simile contesto – la città non è
famosa per la sua laboriosità, per il suo impegno civico e per le sue
prospettive future – il presidente degli Stati Uniti che ci viene a fare
visita, un evento storico, non è nient’altro che uno di quei milioni di turisti
che vengono a vedere le nostre rovine, passate e presenti, con la sola
differenza che per farlo utilizza mezzi di trasporto privati (aerei, elicotteri
e limousine). Ai romani non è importato granché della presenza di Obama, il primo
presidente nero nella storia degli Stati Uniti, perché questo fatto ha
provocato rallentamenti al traffico ancora maggiori di quelli che già
normalmente la città vive. I romani non hanno più fiducia negli amministratori
locali e nei politici nazionali, figurarsi cosa importa loro di quelli esteri. E
del resto a nessuno altrove importa delle sorti dei romani. Questi ultimi hanno
dunque sviluppato un insano egoismo che li porta ad interessarsi solo delle
loro faccende personali. Come ad esempio la presentazione, avvenuta quasi in
concomitanza con l’arrivo di Obama, del nuovo stadio della Roma, il quale ha
riscosso maggiori entusiasmi ed interessi di quanto abbia fatto uno dei
personaggi più potenti del pianeta. Qualcuno dice che non si tratta di un caso
se la nuova proprietà del club sia targata Boston, USA. Qualcuno che pensa che
gli americani ci hanno messo gli occhi addosso, così come avrebbero fatto
i cinesi o gli arabi.
Beh, questa è la globalizzazione, anche gli spaghetti vengono esportati nel resto del mondo. Ai romani non importa sapere chi sarà il costruttore. A loro interessa soltanto la riuscita dell’edificio, un bellissimo impianto all’avanguardia. Proprio come quelli dove gli americani vanno a ingozzarsi di patatine, hot-dog e birra.
Beh, questa è la globalizzazione, anche gli spaghetti vengono esportati nel resto del mondo. Ai romani non importa sapere chi sarà il costruttore. A loro interessa soltanto la riuscita dell’edificio, un bellissimo impianto all’avanguardia. Proprio come quelli dove gli americani vanno a ingozzarsi di patatine, hot-dog e birra.
Chissà quale
sarà il destino di noi romani americanizzati! Questo non è dato saperlo. Chissà
se continueremo a mangiare spaghetti oppure ci faremo contagiare da tutte
quelle varietà di sandwich e salse da spalmare. Magari quando andremo a
visitare il nuovo stadio – qualcuno abitualmente ogni due domeniche, quelle
delle partite in casa della propria squadra (la cui proprietà è tuttavia
altrove: vedi globalizzazione) – diremo: “Ammazza che bello, assomiglia proprio al Colosseo. Forse è
un po’ più piccolo, meno grandioso”. Come un pezzo di prosciutto incastrato fra
i denti, Mr. President.
Ad ogni modo,
come disse uno dei nostri più gloriosi avi nel 49 a.C., attraversando il Rubicone:
“alea iacta est”. Il dado è ormai tratto.