martedì 21 marzo 2017

L'insostenibile pesantezza di un mito

Ho sempre avuto due idoli sportivi, che poi uno gli idoli è giusto che li abbia al massimo nello sport. Altrimenti si potrebbero portare a modello perfino disgustosi personaggi come Briatore, Donald Trump, e perché no, finanche Vittorio Sgarbi. Ebbene, questi idoli per me sono sempre stati Francesco Totti e Roger Federer. E non lo dico perché come molti sono salito sul carro dei nostalgici giusto qualche minuto prima che tutti si accorgessero che in un mondo dominato dal susseguirsi di mode, sponsor, app, social network, sigle di partiti politici e canzoni “hipster-indie-hardcore-punk-elettro-pop”, in mezzo a questo dinamismo compulsivo che cancella la memoria e resetta ogni acquisizione estetica e culturale, ecco in mezzo al nulla cosmico esiste a volte il mito, la leggenda che, in quanto tale, merita rispetto e, perfino, devozione.
Perché chi è amante del tennis e del calcio, amante e marito più precisamente, non può non provare per una volé di Federer o per un assist di Totti quella stessa sensazione di stasi che un appassionato d’arte prova quando si trova davanti, per l’ennesima volta, ad un quadro di Caravaggio, Raffaello o Tiziano.
Premesso che l’arte non è lo sport, qui si sta parlando della dimensione estetica dell’uomo e non di altro. Il gusto del bello, dopotutto, è applicabile anche alla tecnologia, alla moda e a tutte quelle altre stronzate per cui oggi l’uomo spende prima che soldi, tempo. Figuriamoci se non si può applicare una tale categoria dello spirito allo sport, attività in cui l’essere umano si mostra per quello è, dentro e fuori.
E nel momento in cui un atleta, un essere umano, con le sue “gesta” riesce a far emozionare altra gente (milioni di persone), evidentemente possiede qualcosa che gli altri non hanno: l’immortalità. Quantomeno di quelle gesta.
Poche volte mi sono emozionato come durante Roma-Torino (3-2) dello scorso campionato o come quando, al termine di una finale sofferta contro il rivale più ostico della sua carriera, Roger Federer conquista l’ultimo decisivo punto di un torneo del Grande Slam alla veneranda età di 35 anni e sei mesi. Roba per cuori sani.

Ho sempre avuto due idoli ma ultimamente l’uno sta sconfiggendo l’altro. Non l’avrei mai creduto, o creso come si dice oggi, ma ciò sta accadendo. E non perché è dura accettare l’invecchiamento anagrafico, 41 anni, del primo mito (l’invecchiamento metafisico non può esistere) ma perché esso deve rispetto a se stesso, prima di tutto. E vedere Francesco Totti, il mio idolo sin dall’infanzia, l’unico giocatore per cui ho litigato con gente che non ne riconosceva l’enorme grandezza anche “fuori del raccordo anulare”, vederlo in abiti da sera farsi manipolare dall’industria dello spettacolo recitando tristi copioni che dovrebbero far ridere (?) i suoi nuovi estimatori, quelli che fino a poco tempo fa lo deridevano in ogni circostanza per quella sua incapacità di usare le parole come fossero palloni, beh tutto questo mi provoca un dolore infinito ancora oggi, a distanza di mesi. Che la sua carriera post-calcistica sia più vicina allo show-biznez che non a quella da dirigente sportivo è cosa ormai assodata. Come altrettanto evidente è la sua capacità di essere al tempo stesso, per colpa di una rivalità interna al tifo giallorosso, feticcio oscurante o vessillo sacralizzante. Per una piazza così provinciale e frustrata che non merita più campioni, leggende e miti.

Il declino di Totti è quello di un’intera città, di un intero tifo, di un intero popolo. Probabilmente non è più tempo di miti nella Roma moderna. Troppo ingombranti e spiritualmente insostenibili per la quasi totalità dei cittadini dell’urbe. O forse semplicemente è colpa del mito, che non ha saputo fermarsi in tempo, prima di travalicare quella linea apparentemente invisibile che segna il confine tra essere umano e divinità.

Lorenzo Fois

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