Ho sempre avuto due idoli sportivi, che poi uno gli idoli è giusto che li
abbia al massimo nello sport. Altrimenti si potrebbero portare a modello perfino
disgustosi personaggi come Briatore, Donald Trump, e perché no, finanche
Vittorio Sgarbi. Ebbene, questi idoli per me sono sempre stati Francesco Totti
e Roger Federer. E non lo dico perché come molti sono salito sul carro dei
nostalgici giusto qualche minuto prima che tutti si accorgessero che in un
mondo dominato dal susseguirsi di mode, sponsor, app, social network, sigle di
partiti politici e canzoni “hipster-indie-hardcore-punk-elettro-pop”, in mezzo
a questo dinamismo compulsivo che cancella la memoria e resetta ogni
acquisizione estetica e culturale, ecco in mezzo al nulla cosmico esiste a
volte il mito, la leggenda che, in quanto tale, merita rispetto e, perfino,
devozione.
Perché chi è amante del tennis e del calcio, amante e marito più
precisamente, non può non provare per una volé di Federer o per un assist di
Totti quella stessa sensazione di stasi che un appassionato d’arte prova quando
si trova davanti, per l’ennesima volta, ad un quadro di Caravaggio, Raffaello o
Tiziano.
Premesso che l’arte non è lo sport, qui si sta parlando della dimensione
estetica dell’uomo e non di altro. Il gusto del bello, dopotutto, è applicabile
anche alla tecnologia, alla moda e a tutte quelle altre stronzate per cui oggi
l’uomo spende prima che soldi, tempo. Figuriamoci se non si può applicare una
tale categoria dello spirito allo sport, attività in cui l’essere umano si
mostra per quello è, dentro e fuori.
E nel momento in cui un atleta, un essere umano, con le sue “gesta” riesce
a far emozionare altra gente (milioni di persone), evidentemente possiede
qualcosa che gli altri non hanno: l’immortalità. Quantomeno di quelle gesta.
Poche volte mi sono emozionato come durante Roma-Torino (3-2) dello scorso
campionato o come quando, al termine di una finale sofferta contro il rivale
più ostico della sua carriera, Roger Federer conquista l’ultimo decisivo punto
di un torneo del Grande Slam alla veneranda età di 35 anni e sei mesi. Roba per
cuori sani.
Ho sempre avuto due idoli ma ultimamente l’uno sta sconfiggendo l’altro.
Non l’avrei mai creduto, o creso come si dice oggi, ma ciò sta accadendo. E non
perché è dura accettare l’invecchiamento anagrafico, 41 anni, del primo mito
(l’invecchiamento metafisico non può esistere) ma perché esso deve rispetto a
se stesso, prima di tutto. E vedere Francesco Totti, il mio idolo sin
dall’infanzia, l’unico giocatore per cui ho litigato con gente che non ne
riconosceva l’enorme grandezza anche “fuori del raccordo anulare”, vederlo in
abiti da sera farsi manipolare dall’industria dello spettacolo recitando tristi
copioni che dovrebbero far ridere (?) i suoi nuovi estimatori, quelli che fino
a poco tempo fa lo deridevano in ogni circostanza per quella sua incapacità di
usare le parole come fossero palloni, beh tutto questo mi provoca un dolore
infinito ancora oggi, a distanza di mesi. Che la sua carriera post-calcistica
sia più vicina allo show-biznez che
non a quella da dirigente sportivo è cosa ormai assodata. Come altrettanto
evidente è la sua capacità di essere al tempo stesso, per colpa di una rivalità
interna al tifo giallorosso, feticcio oscurante o vessillo sacralizzante. Per
una piazza così provinciale e frustrata che non merita più campioni, leggende e
miti.
Il declino di Totti è quello di un’intera città, di un intero tifo, di un
intero popolo. Probabilmente non è più tempo di miti nella Roma moderna. Troppo
ingombranti e spiritualmente insostenibili per la quasi totalità dei cittadini
dell’urbe. O forse semplicemente è colpa del mito, che non ha saputo fermarsi
in tempo, prima di travalicare quella linea apparentemente invisibile che segna
il confine tra essere umano e divinità.
Lorenzo Fois
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